L'arte può raccontare il silenzio?
In
una giornata particolarmente faticosa, tra una ricreazione e una
discussione in classe, la testa sembra scoppiare. Aiuto, datemi un
po’ di pace! O meglio, datemi un po’ di silenzio! Perchè, tutti,
sembra che gridino? Sarà forse la mia debolezza del momento, o forse
no. Forse c’è qualcosa al fondo che riguarda non i singoli
individui ma le modalità del vivere del nostro tempo, se è vero che
di libri che evocano la dimensione del silenzio come preziosa e rara
ne vengono a più riprese pubblicati (solo per indicarne alcuni: Sul
silenzio, di D. Le Breton, Raffaello Cortina 2018; Il
silenzio. Uno spazio dell’anima, di E. Kagge, Einaudi
2017; Elogio del silenzio, di E. Biguenet, Il Saggiatore
2017). Si
sa, la vita ‘moderna’, la frenesia dei giorni.
In
classe, tante volte, accade di ascoltare giovanissime che lamentano
una stanchezza dovuta ai numerosi impegni, quasi anticipassero ritmi
e ansie dell’età adulta. Finanche la figlia del giornalista Adam
Gopnik, nel bel libro Una casa a New York (Guanda,
2017), a soli quattro anni, si inventa un amico immaginario,
Ravioli, che a stento la piccola riesce a incrociare. Ma certo,
perchè Ravioli è occupato, ha appena il tempo di un caffè!
La
frenesia, il tempo che fugge, l’eccesso di cose da fare: come conseguenza di questo
eccesso di tutto si produce una saturazione di voci e di suoni. E’
la condizione in cui viviamo quotidianamente. Desiderando sfuggire ho provato a ripercorrere delle immagini d'arte che, più di altre, evocano e rappresentano quell'esperienza così evanescente ma a tutti chiara che è il 'silenzio'. La storia dell'arte può venirci in aiuto nella ricerca di una dimensione che stiamo chissà, perdendo? Quella del vuoto, della sospensione, sonora e spaziale, e di conseguenza dimensione anche interiore. Qualcosa che temiamo in nome di un horror vacui sempre più diffuso. Abbiamo paura di fermarci?
Tra
le immagini che mi vengono in mente si afferma tra le prime – nella
mia esplorazione tutta personale, dunque parziale, soggettiva per sua
condizione – una delle tante Annunciazioni del Beato Angelico.
Siamo a Firenze, tra il 1440 e il 1445. Siamo nel convento di San
Marco, siamo nel pieno di una stagione che celebra la pittura, la
scultura e l’architettura come strumenti preziosi per la
trasmissione del sapere. L’elevazione delle arti un
tempo mechanicae alle
arti liberali è uno dei processi che la stagione rinascimentale
inaugura, in nome di un potere intellettuale fino ad allora inaudito
per delle opere su parete, o in pietra, o su altro supporto.
L’immagine dipinta diventa nobile quasi come lo è la parola, e
questa immagine può raccontare storie, idee ed eventi, e suggerire
‘moti dell’animo’, come dirà Leonardo da Vinci.
Beato Angelico, Annunciazione, 1440 ca., Covento di San Marco, Firenze. |
L’Annunciazione della cella 3 di San Marco mi è piaciuta fin dall’inizio dei miei studi. L’immagine
è semplice, ma non povera. In un ambiente raccolto, sotto un
portico, Maria incrocia le braccia con riserbo e delicatezza. Di
fronte sta l’angelo Gabriele, ben assestato ma
aggraziato, come aggraziata è Maria. Se dovessi indicare cosa mi
colpisce di questo affresco direi che in primo luogo mi stupisce la
capacità del pittore di raccontare un dialogo, che per assurdo si
svolge senza che nessuno proferisca parola: Gabriele sta annunciando
alla giovane donna la prossima miracolosa maternità, ma il tutto avviene in una sorta di ‘nulla’. Lo
spazio tra loro è vuoto, come vuoto è lo spazio della parete su cui
si stagliano le due figure. Un nulla bianco e astratto, in realtà
abitato dal loro essere ‘insieme’, in un dialogo muto e
invisibile poiché sacro. L’iconografia è
rispettata anche se resa in modo sobrio (mancano i gigli simbolo della purezza; mancano
riferimenti allo spirito santo; manca il riferimento all’intimità
della casa in cui la giovane si trova) quindi l’immagine non
presenta tratti di effettiva novità, eppure il tutto trasmette una
percezione di intensità. Ecco, questa intensità, questa solennità,
viene esaltata dall’ambiente rarefatto. Le due figure sono
perfettamente immerse in quel che sta accadendo e come nei momenti di
massima partecipazione agli eventi si sta in silenzio senza che
nessuno lo richieda, con naturalezza.
Giorgio De Chirico, Enigma di un pomeriggio d'autunno, 1910, olio su tela, collezione privata. |
Ben
diverso il silenzio che pervade i dipinti di Giorgio De Chirico, tra
i massimi esponenti della Metafisica, corrente attiva
nella prima metà del Novecento italiano. In opere come La
città ideale (1914) o Enigma di un pomeriggio
d’autunno (1910) il silenzio sembra essere un silenzio
da fine del mondo, un silenzio che associo alle situazioni in cui
sembra si stia preparando qualcosa. Le scene proposte dall’artista
sono perlopiù ambientate in piazze italiane, in città riconoscibili
per qualche dettaglio architettonico come nel caso di Ferrara e del
suo castello estense. Strade vuote, piazze assolate su cui si
distendono lunghe ombre della sera, in cui la figura umana è quasi
assente, mentre cime di vele aldilà di muri o treni che viaggiano
verso qualche destinazione rimandano ad un altrove vago e indefinito:
tutto ha il sapore del vuoto e della lontananza.
Le
stesse architetture, i portici, le chiese, le sculture al centro
delle piazze, pur essendo presenti sembrano essere ricordi o
fantasmi, esattamente come le poche rade figure di cui non scorgiamo
il volto. Atmosfere inquietanti e piene di fascino, che rimandano
all’antico (e De Chirico, nel periodo
della totale perdita del centro del secolo breve, cercava ordine proprio nella figurazione e nello stile classico); talvolta atmosfere
felliniane che rimandano all’Italia novecentesca, l’Italia delle
province e dei borghi.
Edward Hopper, The nighthawks, 1942, The Art Institute Chicago. |
Inquietante
forse è anche la pittura di Edward Hopper, anche se qui l’atmosfera
sembra – apparentemente - più gioiosa e chiara, in nome della
varietà dei colori e del linguaggio pittorico preciso e realistico.
Se guardiamo bene, però, i dipinti del celebre pittore americano
sono attraversati come da un sentimento di malinconia ed estraneità.
Hopper è stato definito il pittore della solitudine, poiché i
soggetti ricorrenti riguardano scene in cui uno o più personaggi
sono ripresi nella quotidianità delle loro azioni senza che vi sia
scambio alcuno tra di essi. Uomini e donne colti all’interno di
ambienti, assorti nei loro pensieri, come in bolle, calmi o
angosciosi che siano, uomini e donne che rivolgono lo sguardo verso
qualcosa che sta oltre, oltre una finestra, oltre una porta, oltre
noi stessi che siamo spettatori. Il silenzio in Hopper trasuda da
tutto, dai colori stesi sulle tele, dalle pareti dei luoghi
rappresentanti, dall’espressione assente e bloccata dei volti. E’
il silenzio dell’uomo contemporaneo, solo anche se in compagnia,
immerso nell’ambiguità se non nell’impossibilità di una vera e
reale comunicazione.
Della
difficoltà di comunicazione da cui deriva anche il ‘silenzio’
biografico di Hopper, se ne parla in un bellissimo libro pubblicato
nel 2017 dal Saggiatore, Città sola, di Olivia Laing:
“Cos’ha di speciale Hopper? Ogni tanto appare un artista che dà
voce a un’esperienza, non per forza in maniera conscia o voluta, e
lo fa con una tale prescienza e intensità che li si associa per
sempre. Hopper non amava che le sue opere fossero inquadrate in un
certo senso o che il tema della solitudine fosse considerato la sua
specialità, l’asse portante della sua arte. «Questa storia della
solitudine è esagerata» dice all’amico Brian O’Doherty in una
delle pochissime interviste di una certa lunghezza che abbia mai
concesso».”. Uno dei suoi dipinti più celebri, I
nottambuli, del 1942, racconta la dimensione interiore di una
città e dei suoi abitanti, forse la dimensione straniata dell’autore
stesso – come emerge dalle poche battute concesse agli
intervistatori -, e il silenzio che si accompagna alla notte e ai suoi
incubi.
Marc Rothko, Untitled (Violet, Black, Orange, Yellow on White and Red), 1949, Solomon R. Guggenheim Museum, New York. |
Dall’Italia
agli Stati Uniti, saltando su paesi ed esperienze che molto avrebbero
da dire sul tema che sto provando a raccontare per poche immagini. A
New York approda anche un autore che più silenzioso non si può, Marc Rothko, immigrato a dieci anni negli Stati Uniti, nel 1926, ma
originario della Lituania. Le sue tele sono come delle radure. Sono
delle oasi, o forse per alcuni delle immagini prive di senso: tale è
la loro semplicità, il loro essere niente altro che colore. Ma che
colore. E che semplicità. C’è voluta molta determinazione e anche
molta sofferenza per giungere a questa sorta di evaporazione (il
termine è di Melania Mazzucco, Il museo del mondo,
Einaudi 2015).
Marc Rothko, White center (Yellov, pink and lavender on rose), 1949, olio su tela, collezione provata. |
Qui il silenzio è totale, spirituale e intellettuale
al contempo. E’ l’autore stesso che spoglia di ogni orpello e di
ogni sovrastruttura il suo lavoro. Nel momento dei vari ‘ismi’,
nella N.Y. in cui ruggiscono Espressionismo astratto, Action
painting, Pop art etc. etc. Rothko prova a seguire una strada
diversa, francescana, austera. Dove ci porterà l’esperienza
autentica e immersiva del colore? Dove ci porta la liberazione da
ogni forma e da ogni gesto? Ecco che l’astrazione, il ‘concetto’
puro, tocca quasi la materia, poiché Rothko ci fa vedere il colore
nella sua materialità. Il silenzio è palpabile, l’artista ci
conduce in quella condizione di assenza di pensiero che è la
libertà, dove i pensieri forse si formano. E guai a cercare
intellettualismi, a cercare spiegazioni, a cercare nelle didascalie
un qualche aiuto. Shhh! Devi solo fare esperienza del colore e stare
in silenzio.
Un
po’ come succede, se si ha fortuna, ad Usnelli, nel
racconto L’avventura di un poeta di Italo
Calvino. Il poeta Usnelli, in gita con la sua Delia, vive un momento
di pienezza tale… da non saperlo o poterlo dire. “Usnelli, sul
canotto, era tutt’occhi. Capiva che quel che ora la vita gli dava
era qualcosa che non a tutti è dato di fissare a occhi aperti, come
il cuore più abbagliante del sole. E nel cuore di questo sole era
silenzio”. Ecco,
un po’ di pace.
E
voi, in quale opera, dipinto poesia musica o luogo, trovate un po’
di pace?
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