Ritratto senza volto. Pensieri sparsi sulla fotografia
L'arte è tutta un racconto di corpi e di carne, e delle tensioni che da questi registri scaturiscono. Anche quando è in gioco il prestigio, la ricerca del potere, così come la denuncia o il racconto dei fatti, non è sempre di persone che le arti visive ci raccontano, e del loro spasmodico desiderio di essere, e di essere per qualcuno? Anche quando la 'carne' non c'è, o proprio in sua assenza.
Ricordate il mito dell'origine della pittura, che nasce per l'appunto in forma di ritratto: è quel che racconta Plinio il Vecchio a proposito della figlia di Butade. Triste per la partenza dell'amato, cosa decide di fare il padre - un vasaio di Corinto - per consolarla? Realizzare un calco in argilla del volto del giovane, a partire dal profilo che la ragazza ne ha tracciato seguendo l'ombra su una parete. E' così che può tenere con sè l'innamorato e il suo ricordo. E' così che nasce il ritratto e che l'arte si colloca nella dimensione affettiva dell'esistenza.
Mi sono venute in mente queste considerazioni visitando la mostra Quando le stuatue sognano, al Museo Archeologico A. Salinas di Palermo (aperta fino al 29 marzo), in particolare osservando la serie di immagini che Ferdinando Scianna ha dedicato a Jorge Louis Borges. Nel 1984 lo scrittore argentino era a Palermo per ritirare un premio. Scianna fu incaricato di fare un servizio fotografico, sua l'idea poco convenzionale di portarlo a visitare siti archeologici e musei: lo scrittore argentino, cieco, è infatti ripreso dal fotografo mentre 'osserva' le sculture del museo - di più, le tocca, si relaziona con esse. Ne emerge un cortocircuito di grande interesse. Come può una persona non vedente osservare ciò che per suo statuto si offre alla vista, un'opera d'arte? Come può una persona non vedente relazionarsi con un ritratto che è a sua volta la visione cristallina - lo specchio - del volto di qualcuno? Da scrittore visionario ma lucidissimo Borges diceva di essere divertito all'idea di finire in fotografie che non avrebbe mai visto. Eppure, nelle immagini di Scianna c'è una tensione evidente, come se l'assenza della vista fosse colmata da una qualche altra presenza: il mistero di un uomo che rivolge le sue mani verso oggetti inanimati, il mistero di uno sguardo guidato non dalla percezione ma dalla curiosità e dall'intuizione. E queste foto in bianco e nero si presentano come ritratti e talvolta doppi ritratti, come quella in cui la mano di Borges tocca il volto in pietra di Giulio Cesare, riconoscendolo.
Che un ritratto sia roba difficile è chiaro a tutti gli artisti; c'è una qualche ingenuità nel pensare che sia semplice mettere insieme dei segni per dare idea di cosa è un individuo. L'elemento seducente sta proprio nell'indefinizione, nella fuggevolezza: quel che più dovrebbe dire di noi in realtà dice della nostra ignoranza rispetto al nostro aspetto. E lo stesso, addirittura amplificato, vale per la fotografia, il mezzo che per eccellenza dovrebbe copiare fedelmente la realtà. Ma la fotografia è per sua natura ambigua: come ha detto Susan Sontag la foto non rivela, interpreta sempre, alla stessa stregua delle arti visive (Sulla fotografia, Einaudi 1978). Che presunzione, quella di pensare che l'immagine fotografica restituisca la realtà dei fatti e l'aspetto di una persona in modo oggettivo!
Volto: mi piace seguire il significato delle parole. Da vultus, 'faccia', 'aspetto', così come viso deriva da visum, 'visto', veduto. Il nostro volto è il nostro più grande mistero poichè, rivolto agli altri ed allo sguardo altrui, sfugge al nostro controllo. Non ci vedremo mai, non ci vedremo mai come ci vedono gli altri, non sapremo come davvero veniamo visti. Il volto è ciò che più parla di noi, del nostro essere esposti, del nostro essere per lo sguardo di chi ci circonda.
L'elemento del volto con la sua complessità è presente in tanti campi del sapere e della cultura. Da un lato potremmo ricordare che il ritratto non era spesso praticato nell'antichità, come ad esempio nella Grecia antica, in quanto rappresentazione di un individuo colto nella sua particolarità, mentre l'arte trovava la sua funzione in una dimensione universale, ampia e molteplice, quella del mito o del sociale e del politico. Le sculture che popolavano le città greche fino al IV secolo a.C. erano di eroi, atleti, divinità, non di comuni mortali. Dall'altro, il volto per antonomasia è il volto del sacro, del divino, di ciò che non è degli uomini: il volto di Cristo della Sacra Sindone è carico di valore perchè coglie l'immagine dell'invisibile. E poi, la filosofia: Emmanuel Lèvinas parla del volto come luogo dell' "altro", come il luogo della trascendenza dell'altro. Come se il volto, indefinibile e inafferrabile, fosse una sorta di domanda che ci viene posta. Nel volto dell'altro prende forma l'unica dimensione possibile della nostra vita: la relazione, il confronto.
"Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro. Questo modo non consiste nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un’immagine. Il volto d’Altro distrugge ad ogni istante e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia. […] La vera natura del volto, il suo segreto sta altrove: nella domanda che mi rivolge, domanda che è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia" (da Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Jaca Book 1980)
Il ritratto è dunque quell'immagine artistica o fotografica che ritrae il volto, perlopiù, di un individuo, di una persona. Qui, in carne ed ossa. Aspira a raccontare qualcosa della verità di questo individuo, anche se tale aspirazione naufraga - spesso o sempre, a seconda delle prospettive da cui lo si pensa -, in una sorta di meravigliosa menzogna. O trasformazione, o invenzione. Mi vengono in mente a questo proposito le parole di Van Gogh, che scriveva di voler dipingere delle "bugie, ma più vere della verità stessa" (e quanti autoritratti ha lasciato l'artista); ed Helmut Newton, che racconta delle foto-ricordo che la sua famiglia aveva l'abitudine di far fare ad ogni occasione importante, mettendosi tutti in posa, sorridenti e ben vestiti. "Tutte le foto di famiglia erano costruite in qualche modo come un'enorme bugia su ciò che eravamo. Ma rivelavano la verità su ciò che avremmo voluto essere" (ho trovato questo racconto in F. Scianna, Lo specchio vuoto. Fotografia, identità e memoria, Laterza 2014). Dove inizia la verità, l'aderenza al vero, e dove finisce il falso, la menzogna, lo scarto dall'oggettività delle cose e delle persone? Esiste tale confine?
Il ritratto 'artistico', distinguibile per suo statuto dal ritratto che ad esempio finisce nelle nostre carte d'identità, si colloca in questo limite, tra il vero e il falso, nel limbo variegato e immenso che è il registro della creatività. Lì dove tutto è destinato a trasformarsi. Se nel racconto di Plinio il ritratto nasce dall'assenza, su questa strada può essere interessante chiedersi in quanti modi può essere declinata tale assenza. La risposta - impossibile - è la storia dell'arte stessa, con le sue innumerevoli voci, la storia della fotografia e del Novecento. Il ricordo va a ritratti che non svelano ma nascondono, che dissimulano, che non raccontano di certezze ed armonie ma al contrario di inquetudini e di turbamento. Volti che dovrebbero esserci e che invece non ci sono.
Come in Erwin Blumenfeld (1897-1969) ad esempio, innamorato delle donne, straordinario fotografo di moda, sensibile al trasformismo che il corpo porta con sé. Alcuni suoi ritratti presentano volti impossibili: lasciano cogliere fratture, ferite, sdoppiamenti. Mostrano il dubbio dell'identità, se non la frammentazione estrema dell'unico che dovrebbe essere l'individuo. Fino ad anticipare uno sguardo ipermoderno sull'inorganico che trapela dall'organico corpo, quasi un corpo postumano e manipolato. Anche se il fotografo manipola con scelte compositive, luci ed ombre.
E' una ricerca che trova il suo modello nell'estetica del Surrealismo, tra gli anni '30 e '40 del Novecento, movimento non a caso attraversato da una lunga frequentazione della fotografia. Il Surrealismo, alla ricerca delle manifestazioni libere e automatiche dell'inconscio trova nella foto uno strumento privilegiato: trasformazioni, esperimenti e sovrapposizioni fanno sì che l'immagine più aderente al reale tanto detestato sia quella che più potentemente racconta del caso che abita questo reale. Il volto, e il corpo in generale, è luogo di indagine e di sperimentazione, per creare cortocircuiti e deviazioni dalla via maestra. Man Ray (1890-1976) è stato in tal senso una figura notevole: tra le sue originali produzioni fotografiche, tra rayogrammes e solarizzazioni, l'immagine Anatomia è un ritratto 'impossibile'. E' un ritratto senza volto, è in realtà tutto fuorchè un ritratto perchè trasforma testa e collo in qualcosa di indefinibile: la pelle così fortemente illuminata nella prospettiva dal basso acquisisce un qualcosa di animalesco, di differentemente organico e mobile. Questa nuova entità dichiara pur sempre la sua appartenenza al corpo, non ne è scollegata, pur proponendosi come parte e frammento.
Gli autori e gli esempi da portare sarebbero tantissimi, a partire dalle Avanguardie è stato infatti un susseguirsi scoppiettante di produzioni e di creatività, fino alla nostra contemporaneità, poliedrica e ricchissima, così devota alla fotografia anche fuori dal registro della ricerca e dell'arte tout court. In questo oceano mi piace segnalare due esempi di ricerca che ricorrono alla fotografia, pur differentemente, per raccontare dell'assenza del volto: una in chiave decisamente perturbante, l'altra in una chiave più poetica. Si tratta del lavoro di Aziz e Cucher (Anthony Aziz e Sammy Cucher, lavorano insieme dal 1990), da un lato, e della produzione di Marina Ballo Charmet (1952) dall'altro.
Ricordo la prima volta in cui mi sono imbattuta in queste immagini, realizzate tra il 1994 e il '95. E' stato molto forte, e credo l'impatto resti tale ogni volta. Un viso che non è, che ha della faccia solo l'impalcatura, ma che manca di ogni possibilità di espressione, di comunicazione, di apertura. Si presentano come un ossimoro, che già nel titolo dichiara i suoi intenti: un interno imploso e compatto, misterioso e finanche mostruoso, che vediamo però attraverso l'esteriorità, ovvero la pelle liscia e curata, che rimanda ad un essere umano, maschio o femmina, giovane e in forma. Ma dove è l'essere, qui? Dove sta l'io di cui vediamo il volto-non volto? Le opere dei due artisti scatenano domande a cui non è semplice dare risposta: dove finisce la natura e dove inizia la cultura? Cosa succede quando perdiamo l'uso e la consapevolezza dei nostri sensi? Le possibilità di intervento e di trasformazione che il progresso e la tecnologia ci forniscono costituiscono qualcosa di positivo o ci stanno privando della capacità di contatto? Della capacità di guardare? Saremo anche noi degli alieni, come le creature che abbiamo davanti?
Cosa succede quando lasciamo vagare lo sguardo in modo sospeso e fluttuante, in modo incerto e non mirato a qualcosa di specifico? Potrebbe essere la nagazione dello sguardo, ma ecco che si fa strada invece un'attenzione frammentata ma non meno potente o significante, attenta anche al marginale. Ecco che nasce un lavoro come Primo campo, di Ballo Charmet. Si tratta di un progetto svolto tra il 2000 e il 2002, "che interroga la complessità della percezione. L'ho intitolato così perchè rimanda all'idea del primo campo visivo del bambino piccolo in braccio ad una figura familiare. Anche se vede in realtà solo un dettaglio di chi gli sta vicino - il mento per esempio, e vede immensa una parte (...), diventa significante, cosa. E' un'esperienza che non appartiene al codice comune del vedere ma in qualche modo lo precede". Le parole della fotografa psicoterapeuta (tratte da Con la coda dell'occhio. Scritti sulla fotografia, Quodlibet 2017), lasciano comprendere ciò che è in gioco: uno sguardo distratto ma non superficiale, aperto ma non onnivoro, al contrario delicato e forte insieme, perchè riesce a cogliere oltre che l'originalità di una prospettiva tutto il carico di tattilità, di sensorialità altra, che può stare dentro l'esperienza del guardare.
Non trovo ci sia spazio per qualcosa di perturbante in queste immagini, piuttosto vi trovo come il suggerimento per una comunicazione profonda, per una costruzione insomma. Anche in assenza di ciò che il volto rappresenta, in assenza dei segni dell'identità, dell'espressione e della comunicazione manifesta, abbiamo un contatto. La sensazione è che i corpi che abbiamo dinnanzi siano in ascolto, siano lì per noi. In attesa vigile, come dei familiari che ci lasciano spazio, affettuosamente. In qualche modo, è come se aspettassero che si pongano loro delle domande, che si segua la curiosità, che poi è il modo più bello di porsi rispetto all'arte tutta.
Diceva Zola che l'unico modo per vedere qualcosa è farne una fotografia. Sarebbe interessante mettere a parte lo scrittore delle richerche di oggi, che incredibilmente ci fanno vedere e conoscere anche senza letteralmente mostrare.
Ricordate il mito dell'origine della pittura, che nasce per l'appunto in forma di ritratto: è quel che racconta Plinio il Vecchio a proposito della figlia di Butade. Triste per la partenza dell'amato, cosa decide di fare il padre - un vasaio di Corinto - per consolarla? Realizzare un calco in argilla del volto del giovane, a partire dal profilo che la ragazza ne ha tracciato seguendo l'ombra su una parete. E' così che può tenere con sè l'innamorato e il suo ricordo. E' così che nasce il ritratto e che l'arte si colloca nella dimensione affettiva dell'esistenza.
Jorge Louis Borges, di Ferdinando Scianna. |
Mi sono venute in mente queste considerazioni visitando la mostra Quando le stuatue sognano, al Museo Archeologico A. Salinas di Palermo (aperta fino al 29 marzo), in particolare osservando la serie di immagini che Ferdinando Scianna ha dedicato a Jorge Louis Borges. Nel 1984 lo scrittore argentino era a Palermo per ritirare un premio. Scianna fu incaricato di fare un servizio fotografico, sua l'idea poco convenzionale di portarlo a visitare siti archeologici e musei: lo scrittore argentino, cieco, è infatti ripreso dal fotografo mentre 'osserva' le sculture del museo - di più, le tocca, si relaziona con esse. Ne emerge un cortocircuito di grande interesse. Come può una persona non vedente osservare ciò che per suo statuto si offre alla vista, un'opera d'arte? Come può una persona non vedente relazionarsi con un ritratto che è a sua volta la visione cristallina - lo specchio - del volto di qualcuno? Da scrittore visionario ma lucidissimo Borges diceva di essere divertito all'idea di finire in fotografie che non avrebbe mai visto. Eppure, nelle immagini di Scianna c'è una tensione evidente, come se l'assenza della vista fosse colmata da una qualche altra presenza: il mistero di un uomo che rivolge le sue mani verso oggetti inanimati, il mistero di uno sguardo guidato non dalla percezione ma dalla curiosità e dall'intuizione. E queste foto in bianco e nero si presentano come ritratti e talvolta doppi ritratti, come quella in cui la mano di Borges tocca il volto in pietra di Giulio Cesare, riconoscendolo.
Jorge Louis Borges, di Ferdinando Scianna. |
Che un ritratto sia roba difficile è chiaro a tutti gli artisti; c'è una qualche ingenuità nel pensare che sia semplice mettere insieme dei segni per dare idea di cosa è un individuo. L'elemento seducente sta proprio nell'indefinizione, nella fuggevolezza: quel che più dovrebbe dire di noi in realtà dice della nostra ignoranza rispetto al nostro aspetto. E lo stesso, addirittura amplificato, vale per la fotografia, il mezzo che per eccellenza dovrebbe copiare fedelmente la realtà. Ma la fotografia è per sua natura ambigua: come ha detto Susan Sontag la foto non rivela, interpreta sempre, alla stessa stregua delle arti visive (Sulla fotografia, Einaudi 1978). Che presunzione, quella di pensare che l'immagine fotografica restituisca la realtà dei fatti e l'aspetto di una persona in modo oggettivo!
Susan Sontag, di Annie Leibovitz. |
Volto: mi piace seguire il significato delle parole. Da vultus, 'faccia', 'aspetto', così come viso deriva da visum, 'visto', veduto. Il nostro volto è il nostro più grande mistero poichè, rivolto agli altri ed allo sguardo altrui, sfugge al nostro controllo. Non ci vedremo mai, non ci vedremo mai come ci vedono gli altri, non sapremo come davvero veniamo visti. Il volto è ciò che più parla di noi, del nostro essere esposti, del nostro essere per lo sguardo di chi ci circonda.
L'elemento del volto con la sua complessità è presente in tanti campi del sapere e della cultura. Da un lato potremmo ricordare che il ritratto non era spesso praticato nell'antichità, come ad esempio nella Grecia antica, in quanto rappresentazione di un individuo colto nella sua particolarità, mentre l'arte trovava la sua funzione in una dimensione universale, ampia e molteplice, quella del mito o del sociale e del politico. Le sculture che popolavano le città greche fino al IV secolo a.C. erano di eroi, atleti, divinità, non di comuni mortali. Dall'altro, il volto per antonomasia è il volto del sacro, del divino, di ciò che non è degli uomini: il volto di Cristo della Sacra Sindone è carico di valore perchè coglie l'immagine dell'invisibile. E poi, la filosofia: Emmanuel Lèvinas parla del volto come luogo dell' "altro", come il luogo della trascendenza dell'altro. Come se il volto, indefinibile e inafferrabile, fosse una sorta di domanda che ci viene posta. Nel volto dell'altro prende forma l'unica dimensione possibile della nostra vita: la relazione, il confronto.
"Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro. Questo modo non consiste nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un’immagine. Il volto d’Altro distrugge ad ogni istante e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia. […] La vera natura del volto, il suo segreto sta altrove: nella domanda che mi rivolge, domanda che è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia" (da Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Jaca Book 1980)
Il ritratto è dunque quell'immagine artistica o fotografica che ritrae il volto, perlopiù, di un individuo, di una persona. Qui, in carne ed ossa. Aspira a raccontare qualcosa della verità di questo individuo, anche se tale aspirazione naufraga - spesso o sempre, a seconda delle prospettive da cui lo si pensa -, in una sorta di meravigliosa menzogna. O trasformazione, o invenzione. Mi vengono in mente a questo proposito le parole di Van Gogh, che scriveva di voler dipingere delle "bugie, ma più vere della verità stessa" (e quanti autoritratti ha lasciato l'artista); ed Helmut Newton, che racconta delle foto-ricordo che la sua famiglia aveva l'abitudine di far fare ad ogni occasione importante, mettendosi tutti in posa, sorridenti e ben vestiti. "Tutte le foto di famiglia erano costruite in qualche modo come un'enorme bugia su ciò che eravamo. Ma rivelavano la verità su ciò che avremmo voluto essere" (ho trovato questo racconto in F. Scianna, Lo specchio vuoto. Fotografia, identità e memoria, Laterza 2014). Dove inizia la verità, l'aderenza al vero, e dove finisce il falso, la menzogna, lo scarto dall'oggettività delle cose e delle persone? Esiste tale confine?
Modelle, di Helmut Newton. |
Il ritratto 'artistico', distinguibile per suo statuto dal ritratto che ad esempio finisce nelle nostre carte d'identità, si colloca in questo limite, tra il vero e il falso, nel limbo variegato e immenso che è il registro della creatività. Lì dove tutto è destinato a trasformarsi. Se nel racconto di Plinio il ritratto nasce dall'assenza, su questa strada può essere interessante chiedersi in quanti modi può essere declinata tale assenza. La risposta - impossibile - è la storia dell'arte stessa, con le sue innumerevoli voci, la storia della fotografia e del Novecento. Il ricordo va a ritratti che non svelano ma nascondono, che dissimulano, che non raccontano di certezze ed armonie ma al contrario di inquetudini e di turbamento. Volti che dovrebbero esserci e che invece non ci sono.
Come in Erwin Blumenfeld (1897-1969) ad esempio, innamorato delle donne, straordinario fotografo di moda, sensibile al trasformismo che il corpo porta con sé. Alcuni suoi ritratti presentano volti impossibili: lasciano cogliere fratture, ferite, sdoppiamenti. Mostrano il dubbio dell'identità, se non la frammentazione estrema dell'unico che dovrebbe essere l'individuo. Fino ad anticipare uno sguardo ipermoderno sull'inorganico che trapela dall'organico corpo, quasi un corpo postumano e manipolato. Anche se il fotografo manipola con scelte compositive, luci ed ombre.
Fotografie di Erwin Blumenfeld. |
E' una ricerca che trova il suo modello nell'estetica del Surrealismo, tra gli anni '30 e '40 del Novecento, movimento non a caso attraversato da una lunga frequentazione della fotografia. Il Surrealismo, alla ricerca delle manifestazioni libere e automatiche dell'inconscio trova nella foto uno strumento privilegiato: trasformazioni, esperimenti e sovrapposizioni fanno sì che l'immagine più aderente al reale tanto detestato sia quella che più potentemente racconta del caso che abita questo reale. Il volto, e il corpo in generale, è luogo di indagine e di sperimentazione, per creare cortocircuiti e deviazioni dalla via maestra. Man Ray (1890-1976) è stato in tal senso una figura notevole: tra le sue originali produzioni fotografiche, tra rayogrammes e solarizzazioni, l'immagine Anatomia è un ritratto 'impossibile'. E' un ritratto senza volto, è in realtà tutto fuorchè un ritratto perchè trasforma testa e collo in qualcosa di indefinibile: la pelle così fortemente illuminata nella prospettiva dal basso acquisisce un qualcosa di animalesco, di differentemente organico e mobile. Questa nuova entità dichiara pur sempre la sua appartenenza al corpo, non ne è scollegata, pur proponendosi come parte e frammento.
Anatomia, di Man Ray. |
Gli autori e gli esempi da portare sarebbero tantissimi, a partire dalle Avanguardie è stato infatti un susseguirsi scoppiettante di produzioni e di creatività, fino alla nostra contemporaneità, poliedrica e ricchissima, così devota alla fotografia anche fuori dal registro della ricerca e dell'arte tout court. In questo oceano mi piace segnalare due esempi di ricerca che ricorrono alla fotografia, pur differentemente, per raccontare dell'assenza del volto: una in chiave decisamente perturbante, l'altra in una chiave più poetica. Si tratta del lavoro di Aziz e Cucher (Anthony Aziz e Sammy Cucher, lavorano insieme dal 1990), da un lato, e della produzione di Marina Ballo Charmet (1952) dall'altro.
Distopia, di Aziz e Cucher. |
Ricordo la prima volta in cui mi sono imbattuta in queste immagini, realizzate tra il 1994 e il '95. E' stato molto forte, e credo l'impatto resti tale ogni volta. Un viso che non è, che ha della faccia solo l'impalcatura, ma che manca di ogni possibilità di espressione, di comunicazione, di apertura. Si presentano come un ossimoro, che già nel titolo dichiara i suoi intenti: un interno imploso e compatto, misterioso e finanche mostruoso, che vediamo però attraverso l'esteriorità, ovvero la pelle liscia e curata, che rimanda ad un essere umano, maschio o femmina, giovane e in forma. Ma dove è l'essere, qui? Dove sta l'io di cui vediamo il volto-non volto? Le opere dei due artisti scatenano domande a cui non è semplice dare risposta: dove finisce la natura e dove inizia la cultura? Cosa succede quando perdiamo l'uso e la consapevolezza dei nostri sensi? Le possibilità di intervento e di trasformazione che il progresso e la tecnologia ci forniscono costituiscono qualcosa di positivo o ci stanno privando della capacità di contatto? Della capacità di guardare? Saremo anche noi degli alieni, come le creature che abbiamo davanti?
Primo campo, di Marina Ballo Charmet. |
Cosa succede quando lasciamo vagare lo sguardo in modo sospeso e fluttuante, in modo incerto e non mirato a qualcosa di specifico? Potrebbe essere la nagazione dello sguardo, ma ecco che si fa strada invece un'attenzione frammentata ma non meno potente o significante, attenta anche al marginale. Ecco che nasce un lavoro come Primo campo, di Ballo Charmet. Si tratta di un progetto svolto tra il 2000 e il 2002, "che interroga la complessità della percezione. L'ho intitolato così perchè rimanda all'idea del primo campo visivo del bambino piccolo in braccio ad una figura familiare. Anche se vede in realtà solo un dettaglio di chi gli sta vicino - il mento per esempio, e vede immensa una parte (...), diventa significante, cosa. E' un'esperienza che non appartiene al codice comune del vedere ma in qualche modo lo precede". Le parole della fotografa psicoterapeuta (tratte da Con la coda dell'occhio. Scritti sulla fotografia, Quodlibet 2017), lasciano comprendere ciò che è in gioco: uno sguardo distratto ma non superficiale, aperto ma non onnivoro, al contrario delicato e forte insieme, perchè riesce a cogliere oltre che l'originalità di una prospettiva tutto il carico di tattilità, di sensorialità altra, che può stare dentro l'esperienza del guardare.
Non trovo ci sia spazio per qualcosa di perturbante in queste immagini, piuttosto vi trovo come il suggerimento per una comunicazione profonda, per una costruzione insomma. Anche in assenza di ciò che il volto rappresenta, in assenza dei segni dell'identità, dell'espressione e della comunicazione manifesta, abbiamo un contatto. La sensazione è che i corpi che abbiamo dinnanzi siano in ascolto, siano lì per noi. In attesa vigile, come dei familiari che ci lasciano spazio, affettuosamente. In qualche modo, è come se aspettassero che si pongano loro delle domande, che si segua la curiosità, che poi è il modo più bello di porsi rispetto all'arte tutta.
Diceva Zola che l'unico modo per vedere qualcosa è farne una fotografia. Sarebbe interessante mettere a parte lo scrittore delle richerche di oggi, che incredibilmente ci fanno vedere e conoscere anche senza letteralmente mostrare.
Commenti
Posta un commento