E tu che guerriera sei?


Lezione su Donatello, siamo in una classe tutta al femminile. Si parla di San Giorgio, martire cristiano che libera una fanciulla dal drago cui dovrebbe andare in pasto. L’iconografia ce lo consegna fiero mentre dal cavallo impugna la spada. Alla domanda ‘E voi, vorreste essere salvate da un principe?’ si leva un coro di ‘no!’. ‘Piuttosto siamo noi le guerriere!’. In molte evocano le amazzoni. 

La donna nell'arte: un tema che si snocciola lungo innumerevoli vie. Cerco di fare una selezione supersintetica in omaggio alle mie alunne-guerriere, per ricordare delle figure che, nella storia dell'arte, in qualche modo sono andate controcorrente. Mi sembra utile prendere spunto da un tema di tutti i tempi, ovvero che tipo di persona scegliamo di essere e come ci offriamo alla societa, per approfondire aspetti dell'iconografia - nell'arte -, ma anche per prendere confidenza con il sentimento di sé - nell'esistenza. E quanto può essere fragile e delicato negli anni dell'adolescenza. 

Donatello, San Giorgio e il drago, 1415-17, basamento della scultura, marmo, Museo Nazionale del Bargello, Firenze.

La prima che mi viene in mente è Pentesilea, la regina delle amazzoni. Uno dei reperti più belli che ce la racconta è la kylix della Antikensammlungen di Monaco: chiamata da Priamo per soccorrere i troiani contro gli achei, soccombe per mano di Achille. Con la raffinatezza e la precisione della ceramica a figure rosse l’immagine propone il momento culminante dell’uccisione, quando guardandosi negli occhi, fatalmente, l’eroe e l’amazzone si scoprono innamorati. E’ un’immagine commovente e intensa, che mostra l’eroe con l'elmo, lo scudo, la mano destra che impugna la spada affondata sul petto. La regina, inginocchiata, bellissima e fragile, volge il capo verso chi la sta finendo. Il suo sguardo appare dolce e tradisce un trasporto infinito. E’ molto bello l’intreccio tra le braccia dell’una e dell’altro, come se si stringessero in una sorta di danza che li fa essere insieme nel momento dell’estrema distanza. Si può amare chi ci dà la morte? Mi è sembrata interessante la lettura di Matteo Nucci, in L'abisso di Eros (Ponte alle Grazie, 2018), che vede nel vaso greco una rappresentazione suprema di ‘eros’: qualcosa che travolge e che porta la morte della persona che si era, per rinascere grazie all’incontro che porta nuovo senso alla vita. Senza rischio non c’è eros e forse anche senza incoerenze e contraddizioni.

Pittore di Pentesilea, coppa di Pentesilea, 460-440 a.C., Staatliche Antikensammlungen Monaco.

In quanti modi e con quali strumenti possiamo conquistare la nostra identità? Ad Artemisia Gentileschi (Roma, 1593 - Napoli 1654) succede di conquistarsela grazie agli arnesi del mestiere. In Allegoria della pittura del 1638 (custodita al Royal Museum, Windosor) ritrae se stessa all’opera su una tela. Lo strumento è qui nientedimeno che il pennello, mentre all’epoca le donne non avevano diritto a studiare pittura. Artemisia si mostra secondo un gusto caravaggesco allora in voga, per il forte contrasto di luce ed ombra che mette in risalto il volto (la sua persona sembra emergere da un’oscurità indistinta). Al contempo la scelta è innovativa per la postura di sbieco. Il fulcro della composizione è proprio lei, il suo viso è rappresentato in modo minuzioso, come l'abito e le pieghe del tessuto, la collana con il ciondolo a maschera. Il volto è concentrato: è la mente che guida la mano e il pennello. Lei è la pittura, e si dichiara qui capace e determinata. Aveva già mostrato di avere fegato rifiutando il matrimonio riparatore propostole dal padre, Orazio Gentileschi, a seguito dello stupro subito da Agostino Tassi per cui ci fu a Roma un triste processo. Lei va dritta per la sua strada e realizza opere cariche di intensità e di notevole bellezza, inseguendo l’amore autentico e non altro. E’ un esempio vivo di libertà e fiducia nei propri progetti.

Artemisia Gentileschi, Allegoria della pittura, 1638-39, olio su tela, Royal Museum, Windsor.

Uno strumento di libertà attraverso cui incedere nel mondo in modo poco convenzionale è anche la macchina fotografica. In questi giorni si parla a Milano di un personaggio pressochè sconosciuto fino al 2007, la fotografa americana Vivian Maier (New York 1926 - Chicago 2009). Una figura che nella vita ha sussurrato, fotografando in incognito nella Chicago degli anni ‘50, dove lavorava come tata. Maier ha lavorato in modo amatoriale come fotografa di strada, osservando in punta di piedi persone e situazioni, riprendendo se stessa in giochi di riflessi di notevole modernità, cogliendo la vita come dal buco della serratura in composizioni elegantissime che hanno la dignità delle produzioni dei grandi maestri. Una figura che fa riflettere, in tempi di rincorsa del successo e di difficoltà a reperire passioni e intenzioni; che ci mostra un modo di fare silenzioso ma determinato. Talvolta ci vuole un po’ di ossessione per portare a compimento i propri sogni. Tra le altre cose se ne parla anche qui, sul Manifesto del 15/11/2018 e in questo blog.



Le immagini sono tratte dal blog vivianmaier.blogspot.com

Che intensità invece l'opera di Maria Lai (Ulassai 1919 - Cardedu 2013), un'artista a tutto tondo tra le più luminose del Novecento (difficile trovarla nei libri per le scuole). Lai ha elaborato una poetica in cui la tradizione della sua regione, la Sardegna, convive con la fantasiosità e l'attenzione alla dimensione più interiore dell'essere umano. Opere su carta, in tela, legno, terracotta e pane, installazioni e persino arte relazionale che coinvolge il territorio, l'artista ha utilizzato materiali spesso semplici e inconsueti sulla scia dell'arte informale e concettuale, a partire dagli anni '70. Tra i tanti elementi rintracciabili nella sua opera quello della trama, l'intreccio di fili che come parole raccontano su un tessuto storie e leggende ma anche ricordi, progetti, paure, fino a realizzare dei veri e propri libri di stoffa.

Maria Lai, Il pane e la parola, filo su tela, 1996 (archivio Maria Lai).

Un'altra donna però, prima di terminare questo brevissimo viaggio. Riordinando la libreria di casa salta fuori un libro di una bravissima illustratrice e designer italiana nata a Napoli nel 1978, Marta IorioCicale. Un libro che è una poesia fin dalla copertina, con cui Iorio racconta la sua vita di nomade tra sentimenti e geografie, intrecciando legami familiari, curiosità, allegria e coraggio. Una graphic novel per le edizioni Topi pittori, che mostra come il vissuto emotivo può diventare materia prima per racconti coraggiosi, con immagini vivaci, sognanti e integrate in modo efficace con il testo. Le tavole hanno un sapore fiabesco, ma anche le fiabe trasmettono significati decisivi: come quello che apre e accompagna tutto il libro 'La libertà è una forma di disciplina'



Spade, pennelli, macchine fotografiche, fili e stoffa, parole dette e parole disegnate. Attraverso vari strumenti espressivi (e quanti ancora ne potremmo ricordare e scoprire) le donne hanno saputo essere guerriere, ovvero autonome, determinate e pronte ad andare contromano, non in nome di prevaricazioni ma solo per portare in giro la luce dell'intelligenza e della creazione. Per affermare la propria libertà di pensiero e di azione, le proprie passioni.

E voi, che strumento adoperate per costruire la vostra identità e disegnare il vostro mondo?

Commenti

  1. Mi colpisce la scelta del "bianco" per raccontare la paura, il terrore, la violenza. Ma anche il "bianco della pietra" che richiede l'uso di mazzuoli, scalpelli, sgorbie , per togliere la materia eccedente e portare "a forma e volume" la scultura.
    Bianco è il vuoto del vano che accoglie al centro l'articolazione dei grigi che, soli, "gridano" la lotta tra il drago e san Giorgio, la cui postura manifesta la sua determinazione a uccidere.
    Bianco è pure il "colore" e il "suono" del silenzio che ci fa vedere e "sentire" la tensione della lotta risucchiandoci verso il punto focale della scena, lasciando da parte la fanciulla come algida spettatrice.
    L'osservazione attenta della predella donatelliana, rivedendola a distanza di tempo, mi conferma la soggettività delle diverse reazioni scatenate dalla percezione dei colori.
    Il bianco del marmo statuaro che nel rilievo non è più solo bianco, con il sostegno della moltiplicazione dei grigi - per le infinite, seppur minime, commistioni di luce e ombra, esprime superbamente la violenza dell'azione, tanto da scatenare quella sensazione di assoluto e intenso stupore che sembra annullare persino la percezione di ogni suono come quando si è sott'acqua in apnea.
    Solo la bellezza è capace di sublimare anche l'orrore.
    E a questo punto s'innesca inevitabilmente un'altra riflessione sulla "seduzione" che su di noi esercitano anche la violenza e l'orrore. Ma queta è un'altra storia.
    Rilke

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  2. Grazie Rilke del commento, colto e ricchissimo di suggestioni. La domanda con cui chiudi le tue righe merita attente riflessioni, la seduzione di qualcosa di violento porta forse al sublime? Grazie per gli spunti.

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