Un blog e molte domande


Non ricordo nulla dei miei anni di scuola. O meglio, ricordo tante cose, volti e persone, incontri ed eventi, nella forma di un caos multiforme e colorato. Ricordo come mi sentivo spaesata, talvolta, attraversando la soglia che portava al grande ingresso del liceo e poi verso le aule. Ma non ricordo nulla di quel che accadeva con i miei professori. Tutto quel tempo trascorso ad ascoltare ed anche un po’ - molto poco nel mio caso – a parlare, a fare domande, tutto quel tempo trascorso tra italiano, greco latino e quanto altro. Non credo sia corretto dire, ma devo comunque dirlo, che non ricordo nulla: da qualche parte quelle ore si sono fermate e si sono sedimentate, sono diventate qualcosa le parole e l’ascolto. Da qualche parte quelle ore sono finite, si sono trasformate per condensazione in altro, ovvero le altre mie parole di adulta, le mie azioni, i miei desideri, le mie scelte, i miei errori. Quelle ore sono anche evaporate, ma adesso resta un ricordo appannato se non inesistente.
Eppure so di avere trascorso del tempo in quella vecchia scuola e so che è stato importante. So anche che dall’incertezza del ricordo emergono delle figure nette, dei ricordi che si stagliano con nitore. Non vapori, o vaghe nebulose: sono immagini definite ed ancora parlanti. E’ il ricordo di alcuni professori. La scuola, il tempo trascorso a scuola, per me, ha solo il volto e le parole di quei professori.

Ripenso spesso al mio passato scolastico, oggi che svolgo lo stesso mestiere di quelle figure che dalla lontananza dei sedici, diciassette o diciotto anni, mi parlano di tanto in tanto. Ricordo il modo di fare, lo sguardo, la sensazione di complicità o di austerità che poteva farsi avanti da loro, e li ricordo con benevolenza. Per ciascuno ricordo qualche parola, precisa e netta, che mi porto dentro, non tanto come piccole rivelazioni, ma come parole-compagne, parole che ti seguono per strada e ti vengono a cercare quando sei grande.

Quando sei molto giovane non pensi a quando sarai grande, non ci pensi per nulla. Il professore di latino e greco, che sussurrava appena trasudando severità e carisma, ci diceva di un modo di vivere il presente e il futuro a noi sconosciuto, ci diceva quanto per noi fosse impraticabile. ‘Vivete un ‘avanpresente’, vivete il presente che viene prima, ma non riuscite a vivere l’ora e adesso con pienezza e intensità. Di conseguenza non potete avere idea del futuro’. Il futuro. Questa cosa sconosciuta che non aveva alcun nome, che per me non aveva alcuna vera capacità di seduzione, era solo una parola vuota. Forse è proprio perché il mio incedere in quel tempo era così incerto che non ho ora ricordo di cosa fossi, delle parole dette e delle molte parole ricevute degli anni di scuola. Ora che ne avrei un incredibile bisogno e che continuamente mi chiedo: io che mi rivolgo ai miei alunni, io che parlo loro, io che cerco di spaziare dal presente al passato al futuro, tra arte letteratura e attualità, nel nome di quello che è diventato il mio assoluto credo, la curiosità e uno sguardo in forma di domanda; io che sono insegnante per i miei alunni, che alunna sono stata? Sicuramente so che insegnante sono oggi: una prof che fa molte domande, che cerca di dialogare con le giovani anime che si ritrova di fronte e accanto.

Felice Casorati, Gli scolari, 1927-28, olio su tela, Galleria d'Arte Moderna E. Restivo, Palermo.


A cosa serve oggi l’insegnamento della storia dell’arte? Spesso mi viene posta la domanda: perché non prendiamo carta e pennarelli e disegniamo? Come se il disegno, libero e spontaneo, fosse la chiave di volta per ore e tematiche altrimenti difficili e pesanti. So bene, in realtà, che spesso i miei alunni non vivono con pesantezza le ore trascorse insieme, o se questo accade non sembra toccare vertici di pericolosità irrimediabile. Cerco di seguire il loro andamento interiore ed emotivo, mi sforzo di farlo – quando credo sia giusto farlo – e forzo la mano quando va forzata, e cerco di smorzare dove possibile la pesantezza. Eppure, quella domanda, che molto spesso mi stupisce, credo tradisca un pensiero di fondo del nostro mondo, della nostra società, che sembra non avere bisogno di arte e pensiero ma solo di svago, o di un pensiero facile, preconfezionato, adattabile ai cervelli. Un pensiero breve. La domanda che stupisce nasconde il preconcetto su cui la scuola si è costruita: di là la scienza e il sapere 'serio', di là ancora la creatività, l’estro, la spontaneità dell’arte che arriva per il miracolo del talento. Su queste basi, più o meno consapevoli, ci troviamo a ragionare, a cercare di mettere freno ad un modo di pensare manicheo e romantico, facendo tabula rasa di pregiudizi e luoghi comuni e cercando di lavorare alla ricerca di un pensiero più profondo. Ecco che la storia dell’arte può forse venire in soccorso per trasmettere qualcosa che abbia il sapore dell’incontro tra la mano e il cervello, tra la spontaneità e il progetto, tra l’idea di bellezza come trastullo e l’idea di bellezza come pensiero complesso, che si snoda tra estetica, gusto, economia, la cultura intera di un paese e di un tempo storico, la personalità di quanti decidono di aggiungere qualcosa nel solco della produzione artistica.

Via via che procedo in questo lavoro che non mi sono scelta e che mi è letteralmente caduto addosso, ma che sono andata poi a cercare ed a trovare dentro di me e la mia esperienza, mi convinco che una delle parole chiave dell’insegnamento della storia dell’arte è: libertà.
La libertà della creatività che si concilia con l’esigenza stringente e apparentemente limitante del progetto, dunque del contesto e delle esigenze.
E io, insegnante di turno, che libertà riesco a proporre? Quale idea di libertà? D’accordo, la storia dell’arte ha a che fare con ben altro, la storia del patrimonio, della produzione delle civiltà e delle culture, prima tra tutte la nostra, il bel paese con il suo Rinascimento e annessi. La storia delle tecniche, la storia del gusto, la storia tout court che si snocciola sempre come fondale dietro la storia dei manufatti, della creatività e dell’estetica. Ma non riesco a concepire insegnamento se non in nome dell’insegnamento della libertà, della costruzione della propria persona e della propria dimensione culturale, soprattutto laddove abbiamo a che fare con i concetti di bellezza e gusto, le dimensioni dell’aleatorio per eccellenza. Dico spesso ai miei alunni: qui studiamo gli oggetti prodotti dagli artisti e la complessità che accompagna questi eventi, il contesto storico-sociale, il contesto economico, talvolta si indugia sul contesto psicologico, la tradizione vigente e via dicendo. Studiamo ‘dati’, per come la storia ce li propone e li osserviamo secondo uno spettro estremamente variegato (e quanto complesso per le giovani anime), ma questo materiale lo possiamo ‘leggere’ e lo possiamo sentire, e qui entra in gioco la ‘libertà’. La libertà di esprimere il proprio sentire e il proprio pensiero sulla base di un solido terreno. Ecco dunque quello che facciamo a scuola: impariamo la danza tra soggettività e lettura critica, tra pensiero e sentimento. Impariamo a fare connessioni e confronti, a osservare e anche un po' a sognare.


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