Il mondo nelle mani


Nei giorni scorsi ho avuto la fortuna di assistere alle prove di un balletto. Si trattava della prova dello spettacolo dedicato al mito di Apollo e Dafne, messo in scena dal coreografo Aurelio Gatto per i Teatri di pietra. Di passaggio nella provincia di Siracusa la compagnia ha scelto alcune scuole in cui svolgere le prove, in presenza di classi e docenti, e tra queste la scuola in cui lavoro, il Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Floridia.

Non sono una frequentatrice di spettacoli di danza ed è stato bello scoprire una lettura così intensa ed attuale del mito. Come è noto Ovidio ne parla ne Le Metamorfosi, ma l’incanto consiste appunto nel fatto che una storia così antica abbia ancora molto da dire. Lo spettacolo si concentrava sul tema del dubbio e della complessità: quelli di una bellissima giovane, Dafne, che si affaccia alla vita, e che sfugge allo slancio appassionato di Apollo. Sulla scena volteggiava il dio, innamorato della ninfa perché trafitto dalla freccia di Eros, e ben due Dafne: una chiara e solare ed una oscura e inquieta: due aspetti della femminilità. In questo caso di Dafne, raggiunta dall’altra freccia di Eros, quella di piombo che porta a non ricambiare l’amore.


Giovan Battista Tiepolo, Apollo e Dafne, 1755-60, olio su tela, National Gallery, Londra.


Assistere alla prova è stato entusiasmante, quasi come osservare il lavorìo di costruzione di un progetto artistico in modo un po’ riservato, spiando benevolmente dal buco della serratura il momento in cui si mettono a fuoco i propositi e si sperimenta. Quel che mi preme però raccontare qui è lo stupore che ho provato nell’osservare un dettaglio: la straordinaria capacità di espressione delle mani dei ballerini, in particolare delle due giovani donne che interpretavano Dafne.

Le mani. Forse non è un caso che abbia notato proprio questo dettaglio nell’ambito di una messa in scena che riguarda un mito particolarmente caro alle arti visive, e particolarmente vicino al tema del cambiamento. Dafne, infatti, in preda al terrore e allo sconforto, desiderosa di sfuggire all’amore impetuoso del giovane - seppure non invadente o malevolo - chiede al padre Penèo di mutare le sue fattezze: il mito racconta che la giovane viene trasformata in un albero di alloro, pianta da allora simbolo di Apollo e di gloria. Inevitabile pensare all’opera - non unica - che racconta per eccellenza dei due giovani, il gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini. Credo che le mani siano ciò che possa maggiormente raccontare dell’interiorità e degli stati d’animo di un uomo o di una donna, e dalla danza alla storia dell’arte il passaggio è stato breve. E poi ho sempre amato il dettaglio visivo delle mani dipinte o scolpite, so che è tema per nulla originale ma è potente e sempre stupefacente. E mentre osservavo le mani delle due Dafne, ora benevole e come aperte al dialogo, ora più reticenti o paurose e nervose, passavo in rassegna nel mio ricordo le mani che nelle immagini dell’arte mi hanno colpito. Sono innumerevoli e nessun regesto sarà mai possibile, per il semplice fatto che la storia dell’arte è fondamentalmente una storia figurativa che abbonda di corpi e di espressioni, ma è anche vero che alcuni brani pittorici raccontano in modo esemplare quella sospensione, quel mistero e quella ricchezza indefinibile che è propria appunto della vita.


Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622-25, marmo, Galleria Borghese, Roma.

Qualcuno ha scritto che, nell’ambito della scienza dell’attribuzione dei manufatti artistici lo studio del dettaglio delle mani può riservare talvolta delle sorprese e far dire l’ultima parola su un falso o un originale. Alcuni studiosi ritengono che sia proprio nei dettagli che si riscontra la veridicità, l’autenticità: è nel dettaglio apparentemente insignificante che risiede la personalità dell’artista, la cifra del suo stile, unico come unica è l’identità e il patrimonio genetico.
Dice Virgil, l'appassionato battitore d'aste de La migliore offerta, di Giuseppe Tornatore: “Quella del falsario è un’arte come un’altra, perché ‘in ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico’, perché nell’impostura del copiare l’opera altrui, il falsario non resiste alla tentazione di metterci del suo. Spesso si tratta solo di una minuzia insignificante, un dettaglio privo di interesse, un tratto insospettabile, in cui l’imbroglione finisce ineluttabilmente per tradire se stesso rivelando una propria autentica sensibilità espressiva”. (Sellerio 2013; da cui il film dello stesso anno). Esattamente come il gesto inconsapevole delle mani dirà chi siamo, cosa proviamo e pensiamo.

Fotogramma dal film La migliore offerta, di G. Tornatore.
Il valore che il dettaglio degli arti superiori può avere nell’opera d’arte è dunque sconfinato: può esprimere in modo ancestrale la manifestazione di sé e i rituali delle società preistoriche, come nel caso delle impronte di mani di 10 mila anni fa ritrovate in Argentina.

Pitture rupestri nella Cueva de la Manos, 13.000 a.C. ca., Santa Cruz, Argentina

Può avere la funzione di comunicare messaggi o rafforzare la definizione di una personalità nell’ambito del ritratto. Può essere il soggetto dello studio lungo e difficile compiuto dagli artisti nel loro apprendistato e nella elaborazione dei progetti. 


Leonardo da Vinci, studio di mani.

Può ancora scandire i momenti del racconto di una storia e sottolineare le mille sfumature degli stati d’animo. Come nel caso delle mani di Dafne nel gruppo scultoreo dell’artista barocco per eccellenza: le mani che si fanno ramo, che diventano altro, che trasformano la bellezza luminosa della ragazza nella tranquillità silenziosa di una pianta. Le mani sono qui il mezzo attraverso cui un artista prodigioso racconta qualcosa di effimero per antonomasia e di difficile da fermare nella pietra, la mutazione da una condizione all’altra.

Apollo e Dafne, particolare.

Una mano imprescindibile che è già una sorta di ritratto è quella della Annunciata di Antonello da Messina. Ieratica e solenne, appartiene ad una giovane Maria che fa i conti con qualcosa di grande che le sta accadendo. Se la mano dipinta può avere un valore semantico è proprio in questa immagine che possiamo apprezzarne un esempio. Sembra dire: aspetta, un attimo, fammi prendere confidenza con quanto mi dici.

Antonello da Messina, Annunciata, 1475 ca, olio su tavola, Galleria Regionale della Sicilia Palazzo Abatellis, Palermo.

Mano solenne e meno interlocutoria, che rimanda alla retorica del potere, è quella di Augusto di Prima Porta, ed infatti si colloca nel registro della cosiddetta adlocutio. Sembra dire, ‘venite a me’, ascoltate cosa ho da dire, sono il vostro uomo. Ed era Augusto che diceva tutto ciò, quando l’Impero era agli esordi e la retorica ritmava il dialogo con le masse ed elaborava una forma di propaganda.

Augusto di Prima Porta, I sec. d.C., Musei Vaticani, Roma.
E quante mani osserviamo sulle tavole o tele o sculture che sembrano solo fare eco alla dimensione emotiva e/o sociale della figura ritratta? Pensiamo alla forza volitiva e concentrata che esprime la mano di David in Michelangelo, la mano dubbiosa di Matteo nella Conversione che ne fa il Caravaggio, dove sembra dire: proprio io, davvero io sono il prescelto? La mano severa ma in qualche modo rassegnata di Elenora di Toledo del Bronzino, o ancora le mani voluttuose e aeree delle Grazie ne La primavera di Botticelli. La mano del pensatore di Rodin, che sopporta il peso grave della riflessione, dell’incertezza, della ricerca.

Caravaggio, La conversione di S. Matteo, 1599, olio su tela, San Luigi dei Francesi, Roma.

Sandro Botticelli, La Primavera, particolare, 1482 ca., Galleria degli Uffizi, Firenze.

Agnolo Bronzino, Eleonora di Toledo, particolare, 1545 ca., olio su tavola, Galleria degli Uffizi, Firenze.

Auguste Rodin, Il pensatore, 1888-1902, bronzo, Museo A. Rodin, Parigi.

Grazie ad un articolo pubblicato sul sito leparoleelecose.it ho avuto modo di conoscere il lavoro della fotografa Monica Biancardi. Un altro capitolo intenso quello della fotografia, che declina da quando è nata anche il soggetto del ritratto. Ecco, nel lavoro edito per Contrasto (Manodopera, con testi tra gli altri di A. Cortellessa, G. Fofi, T. Montanari) Biancardi ha chiesto a persone note e meno note di posare per lei, in totale libertà ma con l’unica consegna di mostrare le mani. Ne è venuta fuori, nel corso del lavoro, la scoperta che l’esposizione delle mani può persino, come dice la stessa autrice, essere qualcosa di difficile e imbarazzante. La serie di scatti racconta di mondi vari e diversi, ma tutti in qualche modo intimi, come se alla fine ciascuno diventasse proprio grazie agli arti mostrati il protettore della propria scelta di vita e del proprio mestiere’. La mano racconta chi siamo.

Osservando questi scatti non ho potuto fare a meno di pensare, oltre che alla fotografia di PierPaolo Pasolini scattata da Dino Pedriali e citata nel testo da Andrea Cortellessa, anche all’autoritratto di Robert Mapplethorpe, del 1988. Un'immagine intensa come poche in cui il racconto di sé e del crinale della propria esistenza è affidato non solo al volto che galleggia nel nero, che guarda franco e spavaldo, ma anche alla mano destra che stringe un bastone dall’impugnatura a teschio. Un gesto emblematico e forte, per un dettaglio che viene verso di noi quasi più del volto, e che nell’insieme della fotografia diventa un tutto inquietante ma magnetico.


Robert Mappelthorpe, Selfportrait, 1988.
Anche questa forse un’immagine che parla di trasformazione, come nel racconto di Ovidio. L’ultima metamorfosi qui, quella più misteriosa e difficile.


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