Case, incubi e misteri
Le nostre vite si svolgono dentro e attraverso delle case. Da una casa usciamo la mattina, in una casa rientriamo la sera dopo il lavoro. La casa è quel luogo dolce, protetto e confortevole che eleggiamo a centro di un'intera esistenza. Possiamo viaggiare, attraversare mari e deserti, andare di paese in paese nel modo più irrequieto e nomade possibile: sarà pur sempre una casa che ci accoglierà e sarà una casa che racconterà chi siamo.
Mi sono venute in mente tutte queste cose - e molte altre - facendo la scoperta di Shirley Jackson, scrittrice americana fino ad ora a me ignota, a cui sono approdata attraverso una serie Netflix, Hill House. Jackson è stata autrice del romanzo a cui si sono ispirati molto liberamente gli autori della serie, L'incubo di Hill House, ed è autrice di racconti e romanzi considerati di culto nientedimeno che dal maestro dell'horror per antonomasia, Stephen King.
E' stata una rivelazione, ma soprattutto, leggendo sia i romanzi che i racconti, mi è parso che uno dei temi centrali attorno a cui si sviluppano trame e nodi di interesse è proprio quello della casa. Il 'luogo' per eccellenza della nostra identità, il luogo degli affetti ma anche dei conflitti. In psicanalisi d'altra parte, sognare una casa equivale a sognare se stessi. E così come le persone portano con sé debolezze, ferite e misteri, allo stesso modo le case sono grumi di debolezze, ferite e misteri. Inutile ricordare che sono soprattutto i misteri e le paure gli aspetti delle case su cui si sofferma Jackson; ma anche nell'ambito più horror e inquietante, resta sempre forte la percezione che nell'orizzonte di questa autrice la casa in quanto tale sia portatrice di una personalità.
In letteratura come nel cinema l'associazione tra paura e 'casa' è antica e arcinota. La casa è ambivalente e terribile in modo ancestrale: tanto luogo di felicità, amore e tenerezza, di cura, riposo e accoglienza, quanto luogo di dolore, odio e cattiveria, di indifferenza ed esclusione. Quante case possiamo incontrare nella storia della cultura che evocano questa seconda e articolata deriva, piene di spettri ed evocatrici di esperienze di dolore o turbamento, che infliggono ancora dolore nel presente per la delizia degli spettatori e dei lettori (tra i quali la sottoscritta!) alla ricerca dell'adrenalina della paura.
La casa di cui si racconta in Hill House è un mistero: ci sono punti della sua struttura che sembrano sfuggire alla logica e alle leggi della fisica, che danno luogo a percezioni e sensazioni indefinibili e sempre diverse. Non voglio qui commentare il testo del romanzo, di genere ma anche no, perchè racconta non solo una storia di 'paura' ma anche delle relazioni dei personaggi tra di loro, tra di loro e la casa, e anche del modo in cui forse - alcuni di essi - prendono confidenza con se stessi. Vorrei soprattutto cercare di ricordare le immagini di case dipinte a cui mi è capitato di pensare durante la lettura.
Se è vero infatti che la casa dice di noi, in che modo la pittura ci racconta di questa parte importantissima della nostra esistenza? Non mi riferisco ad architetture dipinte in generale, ma a quella tipologia di edificio che è appunto la casa, l'ambiente privato con i suoi spazi e il suo rimando al vissuto familiare e domestico, e che più di ogni altro edificio si presta ad ambivalenze e al racconto della complessità delle relazioni.
E. Hopper, La casa sulla ferrovia, 1925, olio su tela, MOMA, New York. |
Tra le prima immagini che mi sono venute in mente le case nitide e colorate di Edward Hopper (1882-1967). Non c'è un evidente nesso, non si tratta di immagini di case che dovrebbero in qualche modo vivere di una vita propria, con porte che si chiudono senza motivo e con pareti che sembrano avere le convulsioni (Hill House), ma sono case dalla particolare vitalità. Una vitalità quieta, calma, silenziosissima, come tutti i soggetti proposti dal pittore americano. E poi nei suoi dipinti le case sono davvero una presenza ricorrente, un soggetto riconoscibile e forte. Le case dell'America della prima metà del Novecento, tra New York, Boston, Cape Cod e altre località reali in cui l'artista si trovò a passare, case isolate al mare o in campagna, che hanno un modo di 'stare' dentro lo spazio dell'immagine come fossero presenze, persone, entità. Hanno una loro identità insomma, generata senz'altro dall'assenza perlopiù di persone, dall'importanza data alle aperture, finestre e porte e portici e bowindos, osservate da tagli talvolta obliqui talvolta frontali. Qualche volta possiamo cogliere questi edifici nella loro interezza (ed è anche il caso delle vedute a cui notoriamente Hitchcock si è ispirato per immaginare la celebre casa di Psyco, film del 1960, come La casa sulla ferrovia, 1925), qualche volta ne scorgiamo solo delle parti o si tratta di interni di case cittadine; in entrambi i casi si diffonde come un'atmosfera di sospensione, di attesa o di stranezza.
E. Hopper, Cape Cod Morning, 1950, olio su tela, Smithsonian Museum, Washinghton. |
Allo stesso modo, hanno una qualche sospensione o stranezza quelle vedute - ma potrei dire che sono visioni - di interni colti dall'aldiquà di una finestra. In effetti dire casa vuol dire spesso dire finestre, in Hopper come in altri artisti. La finestra come soglia, membrana tra un dentro e un fuori, tra una vita in società e una vita interiore, tra verità e bugie chissà, o semplicemente tra prospettive antitetiche e inconciliabili. In alcune case di Hopper, colte di profilo e le cui finestre sono messe in evidenza (anche queste di ispirazione per Hitchcock, si veda La finestra sul cortile, film del 1954. Le citazioni cinematografiche sono comunque abbondanti), sembra quasi di essere chiamati a entrare dentro, prepotentemente, come se si mettesse in atto un movimento di esplorazione e di indagine. Cosa hanno queste case di magnetico? Sono placide ma sono anche misteriose, sono abitate ma sono anche desolate, abbandonate, derelitte. E credo sia questa ambivalenza che me le abbia sollecitate nella memoria mentre leggevo di Hill House.
E. Hopper, Nigth Windows, 1928, olio su tela, MOMA, New York. |
E poi ci sono le case di René Magritte (1898-1967). In alcune opere osserviamo degli edifici che si stagliano nella loro tranquillità paradossale, anche se va precisato che la casa in Magritte non è propriamente 'domestica', perchè sembra essere segno, inidizio di quella giocosità surreale e inafferrabile che investe tutto, le cose come le persone come le situazioni. E' il caso de L'impero delle luci, 1949, in cui giorno e notte si fanno compagni improbabili, e la scena è appunto data dal prospetto borghese di una casa; o de I valori personali, 1962, dove la casa prende forma di un solo ambiente, che più casalingo, familiare, intimo non potremmo immaginare, ma puntellato da oggetti fuori scala, gli effetti personali appunto. Oggetti che dicono della routine misteriosa ancor più dello specchio o dei rimandi al setting da psicoanalista (il tappeto ricorda i tappeti di cui lo studio di Freud era zeppo? Magritte ha sempre negato e rifiutato letture psicologiche, ma la stessa struttura 'retorica' delle sue opere evoca la psiche e i suoi simboli). Le case, gli ambienti in cui viviamo, sono davvero come li vediamo? Di cosa altro sono fatti? dello stesso mistero e insondabilità di cui è fatta tutta la nostra esistenza, sembra rispondere l'artista belga.
R. Magritte, L'impero delle luci, 1949, olio su tela, Fondazione Guggenheim, Venezia. |
ll bicchiere che campeggia grande nel mezzo dell'ambiente, una stanza da letto, evoca il raccogliere, il custodire, il contenere, come fa un vaso con l'acqua, un bicchiere. Un contenitore che non disperde e dà valore e senso per il semplice fatto di tenere insieme, e che è trasparente e prende spunto dal contatto con le altre cose, con le altre vicinanze, cambiando senso e funzione in base a nuovi e insoliti accostamenti. Così come un banale fiammifero, un pettine, un armadio, oggetti innocui e familiari, si trasformano improvvisamente in altro, in qualcosa di sconosciuto anche se collocato tra le mura domestiche della nostra casa.
R. Magritte, Valori personali, 1952, olio su tela, Museum of Modern Art., San Francisco. |
Meno inquietanti e al contrario dolci e rarefatte sono le atmosfere degli interni della pittura olandese del Seicento, dove gli oggetti sono chiamati a svolgere la funzione per cui sono stati costruiti. Nelle opere di Vermeer, Rembrandt, De Hooch e altri, l'interno domestico è sinonimo di tranquillità, femminilità, pace intima. Anche quando si ha un riferimento al mondo del lavoro o alle inquietudini del pensiero. L'Olanda vive un certo benessere e le figure della pittura, al lavoro o intente in attività di svago o di meditazione, prendono possesso dello spazio in modo limpido. Gli ambienti sono talvolta illuminati dalla luce che proviene dalle finestre sui lati, in modo da creare dinanismo, ampliare le prospettive, permettendo giochi di luce morbida già inaugurati dai pittori fiamminghi del XV secolo.
Tutto è rarefatto e calmo, pieno del ricordo o del fluire della vita che si fa dentro una casa. Tutto sa di abitazione e di interni in cui le voci e i gesti si sovrappongono, inframezzati da dubbi o pensieri o notizie improvvise, come nel caso della giovane che legge la lettera, come fosse al cospetto del mondo là fuori. E infatti si staglia proprio dinnanzi alla finestra e tutto sa di svelamento, a partire dalla tenda che si apre sulla destra.
Il mondo della casa insomma sarà introspettivo e intimo, un interno su cui solo talvolta è possibile occhieggiare, ma dialoga con ciò che sta fuori, si apre e dà, si apre e riceve. Per questo motivo esistono porte e finestre!
Tutto è rarefatto e calmo, pieno del ricordo o del fluire della vita che si fa dentro una casa. Tutto sa di abitazione e di interni in cui le voci e i gesti si sovrappongono, inframezzati da dubbi o pensieri o notizie improvvise, come nel caso della giovane che legge la lettera, come fosse al cospetto del mondo là fuori. E infatti si staglia proprio dinnanzi alla finestra e tutto sa di svelamento, a partire dalla tenda che si apre sulla destra.
Il mondo della casa insomma sarà introspettivo e intimo, un interno su cui solo talvolta è possibile occhieggiare, ma dialoga con ciò che sta fuori, si apre e dà, si apre e riceve. Per questo motivo esistono porte e finestre!
J. Vermeer, Donna che legge una lettera, 1657-59, olio su tela, Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda. |
Molto ci sarebbe da dire sulle finestre nella pittura, soprattutto su quella dell'Otto e Novecento. Molto ci sarebbe da dire sulla rappresentazione degli interni nella pittura novecentesca, italiana e non. Penso a come cambia la dimensione dell'interno domestico in autori come Matisse e Picasso in Europa, o negli italiani De Chirico, Cagnaccio di San Pietro, Donghi, Casorati e tantissimi altri, in cui si fa strada una femminilità più inquieta e interrogativa, disinvolta e portatrice di visioni moderne.
Per congedarmi da questa breve visione di case voglio però solo evocare uno spazio che ci fa tornare all'inquietudine da cui siamo partiti: Mano con sfera riflettente, di M.C. Escher (1935). Una mano regge una sfera, che a sua volta riflette il volto e il busto della persona che tiene la sfera, Escher appunto, all'interno di quella che è stata la sua stanza durante il viaggio in Italia del 1927. Siamo a Roma. L'artista fiammingo si contraddistinse per la personalità profondamente creativa, che si è mossa tra invenzione e precisione con raffinatezza e apertura mentale, soffrendo forse anche un po' dell'essere tante cose insieme: matematico, ma non abbastanza per i 'veri' matematici che pure lo coinvolsero e lo contattarono, non abbastanza artista per i 'veri' artisti. Resta la sua ambivalenza e complessità, che si traduce in estrema ricchezza e ampiezza di vedute.
Lo spazio della casa qui è visto solo in modo indiretto, attraverso la superficie curva della sfera specchiante. Cosa è all'origine, la realtà che si riflette o il riflesso stesso? Lo spazio riflesso è inquietante e ambiguo, come inquietante è spesso l'opera dell'artista che sembra giocare con la possibilità di individuare un inizio e una conclusione, un percorso lineare e perfettamente razionale. E ancora, cosa è questo spazio che vediamo, distorto e come evanescente? E' uno spazio reale o un'invenzione? Impossibile stabilirlo, per il semplice fatto che per Escher come per tanti altri artisti si tratta di realtà contigue. Il paradosso è sempre parte del nostro mondo e del nostro tempo, come bene esplicitano i suoi lavori che evocano problematiche matematiche sull'infinito e sulla divisione del piano. E allora perchè scegliere tra uno spazio razionale ed uno irrazionale? siamo sempre coinvolti in più dimensioni, anche quando non lo sappiamo o non ci pensiamo affatto, così come quel che abbiamo sotto gli occhi è sempre di più di quel che appare.
M.C. Escher, Mano con sfera riflettente, 1935.
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Per congedarmi da questa breve visione di case voglio però solo evocare uno spazio che ci fa tornare all'inquietudine da cui siamo partiti: Mano con sfera riflettente, di M.C. Escher (1935). Una mano regge una sfera, che a sua volta riflette il volto e il busto della persona che tiene la sfera, Escher appunto, all'interno di quella che è stata la sua stanza durante il viaggio in Italia del 1927. Siamo a Roma. L'artista fiammingo si contraddistinse per la personalità profondamente creativa, che si è mossa tra invenzione e precisione con raffinatezza e apertura mentale, soffrendo forse anche un po' dell'essere tante cose insieme: matematico, ma non abbastanza per i 'veri' matematici che pure lo coinvolsero e lo contattarono, non abbastanza artista per i 'veri' artisti. Resta la sua ambivalenza e complessità, che si traduce in estrema ricchezza e ampiezza di vedute.
Lo spazio della casa qui è visto solo in modo indiretto, attraverso la superficie curva della sfera specchiante. Cosa è all'origine, la realtà che si riflette o il riflesso stesso? Lo spazio riflesso è inquietante e ambiguo, come inquietante è spesso l'opera dell'artista che sembra giocare con la possibilità di individuare un inizio e una conclusione, un percorso lineare e perfettamente razionale. E ancora, cosa è questo spazio che vediamo, distorto e come evanescente? E' uno spazio reale o un'invenzione? Impossibile stabilirlo, per il semplice fatto che per Escher come per tanti altri artisti si tratta di realtà contigue. Il paradosso è sempre parte del nostro mondo e del nostro tempo, come bene esplicitano i suoi lavori che evocano problematiche matematiche sull'infinito e sulla divisione del piano. E allora perchè scegliere tra uno spazio razionale ed uno irrazionale? siamo sempre coinvolti in più dimensioni, anche quando non lo sappiamo o non ci pensiamo affatto, così come quel che abbiamo sotto gli occhi è sempre di più di quel che appare.
Siamo dunque sicuri del mondo che ci circonda? Siamo sicuri di quel che vediamo e conosciamo o presumiamo di conoscere? Siamo sicuri di conoscere la nostra casa e di sapere cosa e chi abita le sue stanze?
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