Il corpo sbagliato

"Prof, posso fare una domanda stupida?". "Certo, ma non esistono domande stupide". "Perchè quella scultura non ha più le mani?". Scambio di battute con Alessandra, in una terza, a proposito di Cleobi e Bitone, i gemelli più famosi della scultura greca arcaica. Si stagliano alti e massicci, inespressivi ma solidi. Il tempo, oltre a portar via il colore che probabilmente li vivacizzava nel lontano VII secolo a.C., oltre a smussare la loro pietra e l'aura di sacralità che doveva circondarli, ha portato via anche le estremità superiori, almeno nel caso di uno dei due.

Cleobi e Bitone, VII sec. a.C., marmo, Museo Archeologico, Delfi.

Ecco che si è accesa una scintilla e la domanda ha innescato il desiderio di mettere insieme quelle opere, sculture e non solo, che hanno qualcosa di perduto o rotto, in un certo senso qualcosa di 'sbagliato'. Opere che propongono una diversa rappresentazione del soggetto per eccellenza dell'arte di tutti i tempi: il corpo. E che un po' ci accompagnano in un registro che mi sta particolarmente a cuore, quello dell'errore e del fallimento. L'intento è arduo e immenso, anche perchè come ha detto Francis Picabia, "L'arte è il culto dell'errore", ma si procede per selezioni e piccoli passi.

Impossibile non sbagliare quando c’è di mezzo lui, il corpo. Quella cosa che guardiamo allo specchio e che possiamo anche non riconoscere. Non abbiamo bisogno degli strumenti delle scienze umane per sapere che il corpo è il luogo della libertà per antonomasia, ma anche quello in cui la pratica dell’errore si fa inevitabile (oltre al conflitto). Siamo nel regno della soggettività: ciò che di più intimo e vulnerabile ma al tempo stesso di più potente abbiamo è lì, nella forma del corpo. La cosa più concreta e che diventa ‘simbolo’ per eccellenza. 
Diciamo ‘corpo nell’arte’ e il pensiero va a tante stagioni che hanno celebrato muscoli e lineamenti, belli e pieni; il corpo delle divinità e degli eroi, esteriore ma anche ‘totale’ perchè esprime armonia e proporzione. E’ il corpo classico degli antichi greci, di chi riconosce il proprio posto nel mondo. Eppure, proprio queste figure si presentano spesso come fratturate, manchevoli e dunque incompiute, a dispetto della compiutezza con cui sono state concepite.


Nike di Samotracia, II sec. a.C., marmo, Museo del Louvre, Parigi.

Satiro danzante, IV-II sec. a.C., bronzo, Museo del Satiro, Mazara del Vallo.

Penso alla Nike di Samotracia, priva della testa, alla Venere di Milo, da sempre per l'Occidente priva delle braccia, al Satiro danzante, penso a tutti quei resti che provengono dall'archivio dell'antichità, come il Torso del Belvedere così mutilo da sembrare esploso, e alla schiera di frammenti che hanno introdotto categorie ben diverse rispetto alla bellezza classica. 'Resti' che sono diventati canone, parti che hanno sollecitato l'estetica del Settecento e dell'Ottocento, quando si guardava ai frammenti tanto con compostezza neoclassica che con ardore romantico (e proprio i romantici inaugureranno il gusto della rovina, il ruderismo, l'evocazione di un tutto antico a partire dal frammento suggestivo e interessante). Pur collocandosi nell’ambito della pienezza le sculture evocate, così come molte altre, hanno a che fare con la precarietà, la manchevolezza, l’incerto. Non è forse un modo per dire che sono imperfette, e che hanno un potere di seduzione in nome di tale imperfetta condizione?


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Torso del Belvedere, I sec. a.C., marmo, Museo Pio-Clementino, Musei Vaticani, Città del Vaticano. 

I Bronzi di Riace, il Doriforo di Policleto, l’Auriga di Delfi e tanti altri, sembrano sfuggire all’errore. Non tanto perché sono stati realizzati senza fallo (anche se lo statuto di copia di alcune di esse potrebbe sollecitare qualche riflessione), quanto perché sono state pensate in un orizzonte che sembra non esprimere la precarietà e l’incertezza. Anche se tali sentimenti non sono del tutto negati, e presenti nella cultura greca attraverso i misteri, attraverso il dionisiaco e il tragico. Attraverso il mito, che racconta della luce e delle oscurità di ogni evento della vita degli uomini.


Bronzi di Riace, V sec. a.C., bronzo, Museo Nazionale della Magna Grecia, Reggio Calabria. 

I corpi della Grecia hanno attraversato la cultura occidentale e hanno dato vita a movimenti che del corpo misurato hanno fatto il proprio cavallo di battaglia. Ma il classico porta spesso con sé l’anticlassico, come ci mostra il Novecento. Nell’antichità, per incontrare corpi differenti possiamo andare verso la preistoria. Il corpo delle Veneri del Paleolitico: lì sì che l’aspirazione alla perfezione non è contemplata. Incontriamo l’immagine di donne piene, dalle forme paradossalmente informi oppure esasperate come volessero essere parte e singolarità, sfuggendo alla legge del sistema. Nella Venere di Willendorf - testa grande e coperta, seni grandi, ventre e fianchi ancora più prominenti - si potrebbe dire che le mani mancano, ma non come nei kouroi arcaici, qui sono appena suggerite. La figura induce spesso gli adolescenti ad esclamare: 'Quanto è brutta!'. Lei, quella superdonna che con le sue rotondità sfida ogni idea di bellezza canonica. Ha detto qualcuno: ‘Sembra un vaso’. E mi è sembrato che in questa ingenua considerazione si potesse scorgere l’aspirazione più autentica della minuscola donna di pietra, cioè l’accoglienza, la morbidezza che si chiede alla vita. Una positività diffusa che non può che abbracciare, anche se ‘senza braccia’. Un corpo ‘sbagliato’, senza nemmeno piedi poiché abbozzati, che di fatto esprime una visione forse solida sull’esistenza.


Venere di Willendorf, 25.000 a.C., pietra calcarea, Naturhistorisches Museum, Vienna.

La storia dell'arte è piena di capolavori che mettono il corpo ben modellato sotto i riflettori, ma è fatta anche di corpi che hanno fatto gridare allo scandalo, deliberatamente sproporzionati e sbagliati, in nome di visioni della realtà e dell'esistenza differenti, inquiete e frammentate. E' l'avventura della modernità e della cultura contemporanea, dell'identità che si scopre complessa e opaca, che fa i conti con l'inconscio e l'infinitezza. Potremmo ricordare il corpo a pezzi che ci propone talvolta il surrealista René Magritte (1898-1967), che sfida le leggi della fisica e dell'ottica. Le sue figure si osservano allo specchio in situazioni paradossali, come se sfidassero l'identità e anzi dicessero che non c'è una sola e unica identità e che questa va cercata oltre il visibile. Il corpo rimanda dunque qui ad una sorta di assenza di razionalità, una lucidissima follia che sovverte i punti di vista consueti. Il corpo non è solo 'nostro', non è unitario, sembra appartenere alla insondabile dimensione di ciò che ci circonda.


R. Magritte, Le relazioni pericolose, 1926, olio su tela; La riproduzione vietata, 1937, olio su tela. 

Corpi deformi e lontani anni luce dalla bellezza solare e razionale sono quelli di Francis Bacon, artista inglese dalla vita travagliata (1909-1992), autore di una riflessione profonda e drammatica sull'io. Le sue forme hanno qualcosa di organico e corporeo, sono ritratti e perfino autoritratti, ma si mostrano così liquefatti e distorti, come slabbrati, da rendersi irriconoscibili e sfigurati. Sono inquietanti e teneri allo stesso tempo, perchè raccontano l'esperienza del malessere, della confusione e del dubbio, e nessuno credo ne è ignaro. Spesso, nei vari studi degli inizi della carriera (fortemente osteggiata dal padre che disapprovava tanto l'omosessualità quanto la scelta professionale del figlio) o nei lavori della maturità, nei trittici, notiamo che le bocche sono aperte in modo esasperato, come sfigurate in una morsa di angoscia e dolore, come se gridassero e provassero a tirar fuori qualcosa che resta altrimenti compresso, in gabbia. La stessa gabbia che inquadra le riletture di Innocenzo X di Velasquez, rivisitate dall'artista in una visione che va ben oltre il ruolo per portare alla luce la persona, assente e debole, che vive sulle poltrone e sotto gli abiti talari.


F. Bacon, Tre studi su George Dyers, 1966, olio su tela.



D. Velasquez, Innocenzo X, 1650, olio su tela, Galleria D. Pamphilj, Roma;
F. Bacon, Studio da Innocenzo X, 1953, olio su tela, Des Moines Art Center, Iowa.

Deformi per sottrazione, quasi eterei e senza peso, 'sbagliati' nel senso che azzerano qualunque concetto di forma proporzionata e naturalistica, sono i corpi poetici e leggeri di Alberto Giacometti, importante artista svizzero (1901-1966). L'anno scorso al Guggenheim di New York ho potuto vedere una mostra sull'artista e rivedere le sue figurine sottili. Che distanza da un David di Michelangelo, che distanza dal volume tondo e plastico di tanti secoli fa. Che audacia e che familiarità allo stesso tempo! Il corpo pieno è diventato vuoto: non ha più spazio per accogliere e nemmeno per agitare arti quasi scomparsi, e snocciola riflessioni nuove muovendosi comunque nello spazio. Come ne La piazza, dove le figure entrano in relazione l'una con l'altra, ciascuna con la sua inquietudine e la sua incertezza. L'opera è data da un basamento bronzeo, dagli angoli smussati, su cui campeggiano cinque figure. Sono eteree, quasi esanimi se non fosse che sprigionano una loro forza e persino una tensione dinamica: tutte vanno da qualche parte, incrociando le altre. Solo una, ed è quella connotata come figura femminile, sta immobile. Sembra un punto di riferimento intorno a cui si muovono le altre, come se fosse l’edificio che manca alla radura, che si chiama piazza ma che di fatto è solo uno spazio aperto senza recinto alcuno. Mi viene da pensare che non ancora affacciato sulla frammentazione e il malessere delle città di oggi, luoghi talvolta senza centro e difficili, Giacometti sul finire degli anni ‘40 abbia visto nelle sue figure in movimento una sorta di anticipazione: il male di vivere e la difficoltà di definire la propria identità e anche il male di vivere nei luoghi contemporanei.





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A. Giacometti, La piazza, 1944, bronzo, Fondazione Guggenheim, Venezia.

E poi c'è il corpo fiero e dolorante, ferito e riparato dall'ostinazione di Frida Kahlo (1907-1954), artista e figura icona del Novecento. I ragazzi la amano, credo per la sua schiettezza e per il suo orgoglio, per la sua allegria a dispetto di ogni malessere. La sua produzione è il lungo racconto della sua vita, è una pittura incentrata sulla sua persona e sulla sua femminilità. I dipinti raccontano della vita in Messico, delle vicissitudini appassionate e conflittuali con il celebre marito Diego Rivera, dei suoi incidenti e malattie e della sua voglia di riscatto. Celebre Colonna rotta, dove Kahlo si erge come un totem, una sorta di idolo, con il corpo ad un tempo sensuale e ferito. Nel 1925, un incidente le causa varie terribili fratture, in tutto il corpo (spina dorsale, arti e genitali). Sarà necessaria una mobilizzazione di diversi mesi, operazioni chirurgiche e busto. L'immagine la propone fiera e consapevole, sincera nel dichiarare la propria ferita. Tutto il corpo è cosparso di chiodi. Il dipinto sembra quasi un manifesto: ricomporre i lembi della spaccatura è possibile, trasformando in forza ciò che è debolezza e disastro. 

La biografia e il suo vissuto, la curiosità mai diventata piena adesione al Surrealismo, l'anima libertaria, questo ed altro fa sì che la pittura di Kahlo proponga il corpo come qualcosa al contempo di piacevole e sgradevole. La pelle, il volto, il busto, tutto l'organismo, diventa una sorta di ponte tra l'artista e il resto del mondo, lungo cui scorrono desideri, sofferenze, conflitti, angosce. Visioni oniriche, a volta giocose, ma sempre animate da un qualcosa di carnale e torbido. La vita per Kahlo doveva avere un sapore violento.


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F. Kahlo, Le due Frida, 1939, olio su tela, Museo de Arte Moderno, Citta del Messico.


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F. Kahlo, Colonna spezzata, 1944, olio su tela, collezione privata.

Ospedale Henry Ford
F. Kahlo, Ospedale Hanry Ford, 1932, olio su tela, collezione privata.


Ma il corpo, oltre a esprimere bellezza, armonia, inquietudine, desiderio, seduzione e conflitto (e molto altro), può anche essere qualcosa di talmente ancestrale da farsi 'casa'? Qualcuno ha detto che il corpo è prima di tutto architettura, perchè lo abitiamo e lo siamo come fosse uno spazio. Interessante, anche in tale prospettiva, è la produzione di una delle più significative artiste francesi del secolo scorso, Louise Bourgeois (1911-2010), che attraverso disegni e poi sculture e installazioni ha raccontato l'intreccio dei ricordi d'infanzia e del rapporto conflittuale con la famiglia, ed anche la condizione di donna, il dolore e la sessualità. E il corpo diventa anche 'casa': qualcosa che accoglie, da cui si prende origine e in cui ci plasma, qualcosa da cui si va e cui si torna, e per cui si prova nostalgia. La stessa che Bourgeois, giunta a New York da Parigi nel 1938, afferma di provare per i familiari. A dispetto del dolore e delle umiliazioni inflitte sopratutto dal padre. 


L. Bourgeois, Femme maison, 1946-47, olio e inchiostro, collezione privata.
Louise Bourgeois, "Femme-maison", 1994, immagine via Tumblr
L. Bourgeois, Femme maison.

Nella serie Femme maison, declinata dapprima in pittura come in disegni, e successivamente in sculture, la casa diventa occasione per rievocare la femminilità e il rapporto con la madre. La casa, luogo dolce e protettivo che è ad un tempo rifugio e trappola, luogo di ricordi e di dolore oltre che di affetti. Non solo un soggetto che si presta a letture femministe in nome di una libertà da rivendicare (un corpo di cui appropriarsi e di cui scoprire segreti e pieghe) ma anche un soggetto che permette di raccontare le complesse e contraddittorie sfaccettature della propria vita interiore e della propria infanzia. La casa è il luogo dell'intimità per eccellenza, ma può anche diventare il luogo delle più profonde tragedie. Scrive l'artista: "Mi chiamo Louise Bourgeois. Sono nata il 24 dicembre del 1911 a Parigi. Tutto il mio lavoro degli ultimi cinquant'anni, tutti i miei soggetti hanno tratto ispirazione dalla mia infanzia. La mia infanzia non ha mai perso la sua magia, non ha mai perso il suo mistero e non ha mai perso il suo dramma".

Insomma, dal corpo si parte e al corpo si torna, giusto o sbagliato, misurato o irriconoscibile, esattamente come fosse una casa. 

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