Della caduta e altri imprevisti. Rossella Leone in mostra a Palermo

Immaginate un uomo che cade, che fende l'aria attraversandola. Da dove cade, da quale altezza? Verso dove? Cosa lo spinge: la sua volontà, il suo dolore, o la follia del mondo che lo circonda? Ma siamo sicuri che stia cadendo, o forse sta volteggiando con grazia nel tentativo di risalire?
Della caduta come metafora parla pressoché tutta la letteratura: di cadute che sono anche viaggi abbiamo piena la memoria, tra Dante, Alice e Ulisse, il cui viaggio cosa altro è se non un ritorno intriso di cadute nel mezzo degli ostacoli e contorsioni della vita. Ed esseri in caduta libera sono persino gli angeli, esseri misteriosi di cui l'arte europea è ricca, messaggeri in volo tra il registro tutto disperato degli uomini e il registro di chi guarda da un altrove. L'altrove sognato e sperato potrebbe essere peraltro la meta della caduta (che è anche il volo) del tuffatore di Paestum, immagine che nella sua semplicità è il racconto di un moto doppio, verso la vita ma anche verso l'aldilà, sia che lo si veda come accompagnamento del defunto (l'affresco sta su una lastra tombale del V sec. a.C.); sia che lo si veda come immagine fuori dal tempo, che parla a tutti noi del viaggio che compiamo nel vuoto e nell'ignoto.

Tomba del tuffatore, 470-480 a.C., affresco, Museo Archeologico Nazionale, Paestum. 

E' di caduta, di precarietà e ricerca di equilibrio, che racconta - tra le altre cose - la mostra Archeologia dello sguardo, di Rossella Leone (a cura di Bruno Corà, Palazzo Riso, Palermo; fino all'11 settembre). Una mostra che raccoglie opere di materiali e di tono differente, tra sculture di carta, oggetti in resina, acquerelli e installazioni, ma tenuti insieme a mio avviso dall'idea dell'abisso. In caduta è un trittico spiazzante: tre maestosi acquerelli suggeriscono la sagoma in filigrana di una figura che cade. Impossibile non pensare alla fotografia terribile dell'uomo che si lancia da una delle Torri gemelle di Manhattan, 11 settembre 2001, dove la caduta è solo morte, è il piegarsi involontario e disperato a disegni di orrore. Una caduta che nella trasfigurazione dell'arte - ammesso che davvero vi sia un richiamo all'11 settembre - sa di attraversamento e di dolore: si intravede lo spazio intorno, nel pannello blu, mentre in quello centrale esplode il rosso. Da sempre colore della vita e del sacrificio il rosso qui evoca il sangue come consistenza tenera e indifesa della nostra carne. Accanto, un pannello giallo presenta come un'ombra - quel che resta della sagoma in discesa. Quel che resta delle tragedie: un'ombra, fotografie sui giornali in bianco e nero, sagome nella memoria collettiva che tiene i ricordi sospesi come in una rete.

In caduta, acqurello, 2012.

Nella stessa stanza in cui si trova il trittico, ieratico come un polittico rinascimentale, si trova un lavoro degli anni '80, Nel vuoto. Anche qui si scorge il tema dell'equilibrio, reso attraverso la figura di un funambolo intravisto dall'alto, da un punto di vista ideale che si colloca sopra la testa e che lascia intuire un filo, l'unica terra impossibile e inesistente su cui è dato muoversi. In bilico, su un filo, non puoi stare fermo, devi muoverti per necessità. Non sei in caduta e non sei nemmeno stabile, ma sei sospeso e a rischio. Le mani grandi sono il richiamo alla ricerca della presa salda e sicura, le mani sono l'unica cosa che può soccorrerti, ma evocano anche un movimento aggraziato, quello di una danza in cui chissà la ricerca incessante di equilibrio potrebbe trasformarsi.
"Chi non è pronto a dare tutto per sentirsi vivere non ha bisogno di diventare funambolo", scrive così Philippe Petit, che di equilibrismi se ne intendeva se è vero che del passeggiare sul vuoto ha fatto il mestiere di una vita (Petit, tra le varie imprese, ha attraversato il 6 agosto 1974 lo spazio tra le Torri gemelle, su un cavo d'acciaio dello spessore di 3 centimetri).

In bilico, carta di cotone, pigmenti,  1986.

Osservando i lavori di Leone ho pensato agli angeli più belli che l'arte del Seicento ci abbia consegnato, quelli che campeggiano dall'alto delle Sette opere di misericordia del Caravaggio, angeli che sembrano proiettarsi con slancio verso il basso della città degli uomini, in qualche modo 'umani' anch'essi, curiosi e generosi nei confronti di chi si agita sotto. Ali grandi e scenografiche si spiegano e sembrano attrezzi per mettere in atto un qualche equilibrio, esattamente come l'equilibrista di Leone ha solo braccia e mani per tenersi nell'aria, quasi un punto interrogativo che si disegna nel vuoto. Un'altra maniera per dire che ci si deve 'dare', consegnare, affidare senza riserve, al vuoto e alle incertezze, per concludere qualcunque cosa o solo per essere. E non importa che il tuo strumento siano le ali, o le braccia, o un pennello o una penna, o un filo sottile di cui fare il tuo grimaldello: devi comunque provare a danzare e a soffrire, su questo nulla.

Caravaggio, Sette opere di misericordia, 1607-1608, olio su tela, Pio Monte di Misericordia, Napoli.

La ricerca di equilibrio, la ricerca di un approdo mentre si procede e si cade, ci si rialza e poi si cade, di nuovo, come un moto incessante durante il quale gli occhi vanno tenuti bene aperti. Che non si dica che non abbiamo il coraggio di guardare ciò che accade intorno. Al tema della caduta e dell'equilibrio si lega in Leone il tema della violenza e dell'orrore, della presa d'atto delle ferite del vivere contemporaneo (o di sempre? le opere dell'artista propongono suggestioni provenienti ora dall'attualità più stringente ora dal mito: amazzoni, Eracle, Ecuba e Fedra popolano le sue produzioni). E l'attualità è tutta una caduta, più che caduta, è tonfo, è salto verso il basso che stende. Stesi e orizzontali sono i defunti, come Papa Wojtyla lungo disteso sul feretro che campeggia dall'istallazione Madamina il catalogo è questo, gelido e livido accanto all'immagine delle donne e della bambina morta a Mosca durante il sequestro del teatro Dubrokva, nel 2002. Si tratta di un'opera che riesce a tenere insieme l'orrore e la levità (che non è superficie, non è indifferenza, è solo il potere dell'arte che mescola gli opposti). La morte, dei grandi e degli ultimi, è diventata soffice, è diventata la stampa nitida sui cuscini di un fouton, è l'assurdo del nostro tempo, che ci costringe a vedere ma che non sempre ci porta a guardare e a cercare con attenzione.

Fedra, carta di cotone e acciaio, 1994.


Futon, stampa su tessuto, 2005.

E poi ci sono i muri, grandi pannelli di polpa di carta lavorata e trattata grazie al contatto con le superfici di reali muri cittadini. Sono pannelli di carta a rilievo, in cui si tiene traccia della superficie rugosa, antica, sporca e abbandonata di alcuni muri della città di Palermo. Una sorta di frottage. Sono opere semplici e complesse. Semplici, per la sobrietà ed essenzialità con cui si propongono, per l'aura 'classica' che portano (il dialogo con l'antichità è presente anche in queste creazioni, nella serie dei muri Respiroblu si compone di pannelli che hanno la sagoma di intercolumni, lo spazio che nel tempio greco si distende tra colonna e colonna); complessi, per la ricchezza e stratificazione di cui sono fatti: come fotografie del tempo, di ciò che non si può proprio fermare. E vi si leggono come delle bolle, delle macchie, delle forme magmatiche che sanno di materia viva. Che vi si possa scorgere un richiamo alla materia della conoscenza, al viaggio del sapere, intellettuale come emotivo? La struttura da cui si lancia il tuffatore di Paestum è un gruppo di colonne: come le colonne d'Ercole, limite oltre il quale nella cultura antica si procede in mare aperto. Mare della curiosità, del coraggio, dell'aspirazione al sapere, come il mare blu che si intravede tra colonna e colonna, mare che unisce e che separa, che diventa un muro a sua volta.

Respiroblu, carta di cotone, pigmenti, garza, legno, 2019.

Ritratto urbano, carta di cotone, degrado, legno, 2006.


Il muro non ha niente di leggero, evoca la pietra ancorata ad un suolo. Il muro è un elemento dal fortissimo valore simbolico, l'architettura per antonomasia. Un muro divide, è confine, ma è anche struttura che contiene, che sostiene, è lì dove inizia la costruzione. Non è un caso che Leone sia un architetto. Il muro è l'archetipo, ma è anche oggetto politico, come ricorda Marco Filoni: "(Il muro) protegge il dentro, ma non può farlo senza minacciare l'esterno. Oppure protegge il fuori da chi sta dentro. E' una recinzione politica. E' violenta. Il muro recinta e come ogni recinto è statico e dinamico" (Lo spazio inquieto. La città e la paura, Edizioni di passaggio, 2014). Di muri sono fatte le architetture, di muri sono fatte le case, luoghi attraversabili o impenetrabili, lì dove vivono i desideri ma dove anche serpeggiano mostri e spettri.
Le case possono diventare delle prigioni? La serie dei Canopi urbani, solidi opachi e trasparenti dalla forma di case, con tanto di tetto spiovente, sembra un omaggio poetico quanto estremo ai paradossi e alle violenze dello spazio intimo per eccellenza, la casa.
Nè i Canopi, né i muri di Leone riescono ad essere del tutto immobili, mantengono qualcosa di liquido, muri come dei trampolini da cui prendere slancio, o da cui prendere il volo, o da cui solo stare a guardare. Nella materia inerte di cui sono fatte le piccole case si intravedono nervature, presenze inglobate all'interno, ferite, disegni, ombre. Forse grida o sussurri. Come uno specchio d'acqua nel quale cercare l'immagine degli altri - amati e difficili -, o di sé stessi - amati e difficili - incomprensibili ancor più dei prossimi.



Canopo urbano, 2010.


E' questo intreccio che stupisce nelle opere di Leone: la caduta e l'ascesa, la materia e il vuoto, la pietra e il soffio, l'equilibrio e la stasi, questo valzer che sa di abissi e di violenza ma che riesce a tenere tutto. La vita stessa è cuore di tenebra, è violenza anche nella dolcezza, e non c'è vita senza queste asperità. Il dolore si tiene, insieme alla grazia e a qualcosa d'altro. Non so se in questi lavori ci sia spazio per sentimenti come la gioia, ma rivedendoli mi viene in mente quel verso di Rilke, dalle Elegie duinesi, la decima, in cui il poeta ribalta l'idea della felicità come ascesa.
Ti aspetteresti di cadere quando sei finito e invece cadi quando sei sgomento, quando sei vivo:

"E noi, che pensiamo alla felicità
come a qualcosa che sale, sentiremmo
l’emozione, che quasi ci sgomenta,
di quando una cosa felice cade".

Commenti

  1. Recensire non è parlare dell'oggetto della recensione... è un gioco di specchi in cui chi scrive vede quel frammento dell'altro che il proprio sguardo riesce a vedere ... è parlarsi attraverso il medium dell'opera in un "noli me tangere" che paradossalmente agevola la comunicazione ... è un immergersi nel processo creativo dell'altro... è un atto d'amore.
    Ho visto la mostra e mi ha emozionato!

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  2. Grazie delle belle parole e della condivisione.

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