Siamo davvero liberi? Esperienze d'arte e di cura a Palermo


Tornando da scuola, qualche giorno fa, ho avuto una visione. Niente di soprannaturale, non fraintendete, ma si trattava comunque di una bella visione. Un murales in un luogo inaspettato: una mamma con il suo bambino che campeggiava dall’alto della facciata di un palazzo lungo la strada che da Bagheria porta a Palermo, quartiere Sperone. A destra il mare e monte Pellegrino, armonioso e acquattato sulla linea dell’orizzonte. A sinistra questa immagine viva, dai colori brillanti. Unico trait d’union il rosa: come le nuvole che screziavano il cielo in quel momento, rosa è la scritta che sta in basso al dipinto: Sangu e latti, sangue e latte.

I. Scalisi Palminteri, Sangu e latti, 2019 @meridionenwes

Una donna vista dall’alto,
seduta su una sedia e intenta ad allattare, mentre osserva e abbraccia amorevolmente il figlioletto. Un’immagine quieta e vivace al tempo stesso, realizzata da Igor Scalisi Palminteri – già autore di diversi murales nel quartiere di Ballarò, 
sempre a Palermo – in collaborazione con l’associazione L’Arte di crescere. L’idea è quella di avvicinare il quartiere all’idea di cura e di partecipazione, lì dove un tempo sorgeva un asilo che di fatto non è mai decollato e dove per tanto tempo si è diffuso il disagio, l’incuria e l’abbandono. Si comincia dal nutrimento, cura primordiale e istintiva - il sangue come vita e il latte come cibo - per promuovere altre forme di cura e di nutrimento, quelli che hanno bisogno di relazione, di vedersi l’un altro, come accade per i genitori con i propri figli e come accade per le comunità con i loro membri, e viceversa.

E’ un’immagine tenera e accessibile, che non passa inosservata nel susseguirsi scomposto di edifici nel tratto di costa palermitana. Mi ha fatto pensare all’azione che l’arte può svolgere, ovvero richiamare l’attenzione, stupire, far fermare su forme e colori, su segni che hanno un senso e che parlano di legami, dolcezza, dell’essere insieme, della complessità dell’essere diversi, ovvero adulti che si relazionano con piccoli e piccoli che si relazionano con adulti, della necessità del nutrimento, che sia cibo per il corpo o cibo per la vita interiore. E l’arte tutte queste cose, in qualche modo, le sollecita.

Tina Modotti, Madre con bambino, Messico, 1929.


Dorothea Lange, Madre migrante, California, 1939.

Mi sono venute in mente altre forme di nutrimento che la città di Palermo, in questo momento, prova a dare in luoghi disagiati ma molto diversi rispetto a un quartiere - lo Sperone come Ballarò: il coraggioso progetto Arte per la libertà che prevede lo svolgimento di esperienze e workshop d’arte all’interno della Casa di reclusione Di Bona - Ucciardone. Un carcere non è un quartiere, è un luogo dotato di recinti e di confini, uno spazio di reclusione dove delle persone si trovano a sostare per lunghi o brevi periodi in uno stato di privazione della libertà, per scontare una pena. Il dibattito sulla condizione delle carceri in Italia è animato, così come animato è il complesso delle attività trattamentali (termine difficile che non conoscevo) con le quali si prova a sollecitare percorsi di trasformazione nei detenuti o semplicemente una diversa esperienza del carcere, maggiormente umana e arricchente. Un elemento, però, accomuna i quartieri degradati o periferici alle carceri: il bisogno di nutrimento, e di un nutrimento speciale.

Uno dei workshop del progetto Arte per la libertà. Foto di Georgia Palazzolo.

Si è parlato del progetto Arte per la libertà in occasione del convegno Tra le righe. Esercizi di libertà in carcere, tenuto il 24 ottobre scorso a Palermo, a Palazzo Branciforte, dove i curatori e ideatori Elisa Fulco ed Antonio Leone hanno fatto il punto sulle operazioni che si stanno svolgendo già dal febbraio 2019, e che fino all’anno prossimo prevedono una serie di workshop svolti dall’artista Loredana Longo con alcuni detenuti, insieme ad operatori e altre figure professionali che vi lavorano, con l’idea di fare dell’arte – esperienza di libertà per antonomasia – un esperimento di trasformazione personale e culturale (approfondimenti sul sito dell'Associazione Acrobazie, che realizza il progetto insieme a ruber contemporanea e Fondazione con il Sud e Fondazione Sicilia. Foto tratte dal sito acrobazie.org).



Tra i tanti interventi due sono stati estremamente toccanti: il racconto di Alexander, detenuto che ha raccontato della sua partecipazione al progetto come dell’occasione per vivere una scelta, quella che fa la differenza e che permette di comprendere che può esistere una vita migliore. Una vita diversa dentro e fuori il carcere, attraverso l’azione, il mettersi in gioco, il contatto e il dialogo, attraverso lo studio e la voglia di fare. Ha raccontato con parole sentite della meraviglia provata al cospetto dell’arte, come qualcosa che di per sé non porta miracoli ma che permette di cercare una diversa consapevolezza di sé.

E poi il racconto di Armando Punzo, regista ed attore impegnato da trent’anni nella conduzione della Compagnia della Fortezza, la compagnia teatrale che conduce all’interno del carcere di Volterra.
Se ho scelto di fare il mio teatro in questa stanza [il carcere di Volterra] non è perché mi interessi il carcere. Anzi. A me interessa solo chi riesce a sentirsi libero in un carcere”. Sono entrato in carcere perché mi sentivo prigioniero io”. Sono parole del regista, che con forza e passione, cultura e intelligenza, svolge questo lavoro paradossale: portare la libertà lì dove manca. Eppure, la sua visione ribalta la prospettiva, perché la libertà sembra quasi avere poco a che fare con il carcere. La libertà è qualcosa da conquistare per tutti, detenuti come uomini liberi, cogliendo il senso principale del lavoro artistico: il processo di trasformazione che ne è il cuore, che si innesca e che va cercato, alimentato. Se c’è qualcosa che unisce arti visive, teatro e persino il carcere, fuori dalla facile retorica di noi che parliamo lontani dalle case circondariali, è una sorta di umanesimo: il bisogno di vedere e riconoscere l’uomo nel suo valore, nella sua dignità, con le sue potenzialità.



La libertà è qualcosa di ambiguo, volatile quasi, dalle differenti sfaccettature a seconda del punto di vista nel quale ci poniamo. La libertà ha a che fare con lo sconfinamento, con l’apertura, con il superamento delle barriere, e non a caso Punzo parla di libertà come di qualcosa che attraversa le sbarre: “Il carcere reale è metafora concreta di un carcere più ampio in cui tutti viviamo. Entrare qui dentro significa varcare un limite che esiste anche nel mondo fuori, ma che in carcere è visibile in modo abnorme” (il racconto della sua esperienza si può leggere nell’autobiografia Un’idea più grande di me, Luca Sossella editore 2019, da cui sono tratte le citazioni riportate).



La libertà ha a che fare con i legami, i rapporti, gli scambi. Attraverso i rapporti e le relazioni costruiamo la nostra persona, attraverso i rapporti cerchiamo nutrimenti, come quelli che ci vengono anche dalle esperienze dell’arte quando regala nuovi stimoli, nuovi pensieri e sentimenti; occasioni di trasformazione per cui il dentro e il fuori delle cose si mettono in relazione, e ci scopriamo diversi e possiamo anche spiccare il volo. Di volo si parla anche nei workshop di Loredana Longo, il cui titolo non a caso è “Volare per una farfalla non è una scelta”.

I nutrimenti passano dunque dal dialogo, come quello che sta dentro l’abbraccio senza parole di una madre verso il figlio, ben aldilà del solo necessario ‘latte’. O dentro i rapporti genitoriali tutti: ricordiamoci dei padri infatti e di queste figure che accompagnano in altro modo, come quando un padre accompagna il figlio nella sua esplorazione del mondo attraverso il gioco (un campo di calcio ad esempio, nella bella fotografia di Massimo Sestini, vincitore del World Press Photo 2015 con la foto Mare nostrum).

Massimo Sestini, Aymad e il figlio Neuwied, Germania, 2019.

I padri ci accompagnano nella comprensione che i confini li abbiamo dentro di noi, perché umani siamo e sulla soglia dei limiti oscilliamo, ma possiamo farne altro e tra un confine e l’altro incontrare, vivere e giocare, magari amare.

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