Chi sono? Un autoritratto per inventare se stessi.


Quanti selfie vi concedete, durante le vostre giornate? Con quanti selfie intasate i vostri profili social? Tanti o pochi che siano vi sarà successo certamente di farvene uno, e ancora, che durante un qualche scatto al vostro volto vi siate sentiti un po' artisti, alla maniera di un Courbet o di un Rembrandt o Picasso, o ancora di una Frida Kahlo, solo alcuni tra i tanti autori che con gesto meno tecnologico ma ben più antico hanno reso celebre l'autoritratto, praticandolo molto, se non moltissimo. Selfie come arte? Chissà, intanto anche a questa pratica diffusa e quotidiana, democratica come solo la fotografia è riuscita ad essere, pervasiva e innocua al tempo stesso, è andato il pensiero durante la lettura del libro di James Hall, L'autoritratto. Una storia culturale (Einaudi, 2014).


Diciamo autoritratto e pensiamo ad un genere artistico che mette in pratica verosimiglianza, certezza e precisione, come se l'artista realizzando un'immagine di sé potesse dare forma alla rappresentazione di ciò che conosce meglio, la propria persona. Falso, perchè la visione degli autoritratti, soprattutto in epoca moderna, ci fa capire quanto il genere sia sorprendente: un autoritratto spesso si allontana dalla fedele immagine allo specchio e inventa di sana pianta, trasfigura, abbozza, idealizza e mette maschere. Molto spesso, mente (sul rapporto complesso tra verità e fotografia, in particolare, si veda il bel libro di Lugi Zoja, Vedere il vero e il falso, Einaudi 2018).

René Magritte, Il figlio dell'uomo, 1964, olio su tela, collezione privata.

Egon Schiele, Autoritratto, 1910, matita tempera e acquerello, Albertina, Vienna.

Francis Bacon, Studio per autoritratto, 1973, olio su tela.

Sono tante le considerazioni da fare sul genere e sul libro - occasione per conoscere un po' meglio alcuni aspetti dell'iconografia, tra svariati esempi e riferimenti filosofici, ma anche per lanciare domande su qualcosa che riguarda la nostra contemporaneità, il regno dell'elogio di sé -, in linea di massima l'artista che nella storia mette mano al proprio ritratto lo fa sulla scorta di molteplici intenti, talvolta anche contraddittori: per raccontare il proprio prestigio o l'ansia di ricerca, per affermare il proprio ruolo nella giostra della società o per cercare un qualche indizio di chi si è, perchè magari non si ha alcun modello a disposizione o per dare prova di abilità pittorica quando qualcuno va a visitare lo studio ("gli autoritratti non sono realizzati guardandosi allo specchio ma ritirandosi in se stessi"). Si considera spesso un genere moderno per antonomasia, legato alla consapelovezza dell'individuo ed alla cultura laica che dal Rinascimento si fa spazio fino al Romanticismo, altro momento culturale che fa del ritratto di sé un genere diffuso: l'immagine dell'artista fiero, creativo, in preda a genio e sregolatezza, tormentato e sull'orlo dell'abisso, attraversa la produzione di tanti autori dell'Ottocento. Un merito del saggio di Hall è di proporre la lettura del genere in questione anche in epoche non sospette, come il Medio Evo. Chi l'ha detto che si tratta perlopiù di secoli in cui la condizione dell'individuo si perde nelle spirali della teologia e dell'afflato religioso? Ecco che il miniaturista Rufillus lascia una notevole traccia nel capolettera di un codice, in una 'R' ricca di rossi, azzurri, verde e ocra; ecco che l'artista si mostra al lavoro, quasi un architetto che costruisce il sapere attraverso il disegno di eleganti lettere. Umberto Eco nel suo Storia della bellezza (Bompiani, 2004) proponeva una visione analoga del Medio Evo: non solo spiritualità e sguardo puntato verso la salvezza ma anche esplosione del colore e della brillantezza. Non solo secoli bui, dunque.

Rufillus, autoritratto mentre minia il capolettera R, 1170-1190, Bibliothèque Bodmer, Gèneve.

Tra i tanti autori da ricordare uno in particolare, caro ai ragazzi di tutte le scuole e molto amato dal grande pubblico, quel Vincent che coniuga attraverso più di 30 autoritratti l'incessante studio della propria persona con la percezione di sé come 'nullità', come vaso rotto, come figura alla deriva, cane randagio (solo alcuni degli epiteti nelle intense Lettere a Theo). Mai come in Vang Gogh è stata forte la riflessione sul sé come fallimento e come errore, eppure la sua pittura è tutta un canto alla luce, al colore, all'energia, al contatto con la realtà intorno e con i suoi abitanti. Autoritratti anche in forma di sedia, solitaria e deserta, come spesso accade in altre sue tele (La stanza ad Arles, Caffé di notte). Un'ansia di amore e di vicinanza smentita dalla solitudine e dalla sensibilità bruciante. "Cosa sono io agli occhi della gente? Una nullità (...) Ebbene, anche se ciò fosse vero, vorrei sempre che le mie opere mostrassero cosa c’è nel cuore di questo eccentrico, di questo nessuno”.

Vincent Van Gogh, Autoritratto, 1889, olio su tela, Museé d'Orsay, Parigi.

Vincent Van Gogh, La stanza ad Arles, 1889, olio su tela , Museé d'Orsay, Parigi.

E oggi? Viviamo un'epoca contraddittoria, attraversata da sentimenti contrastanti, in cui sembra che la cura e l'esaltazione della propria immagine diventino obiettivi centrali nell'esistenza di ciascuno. Gli artisti non hanno perso interesse per l'autoritratto, nonostante astrazioni e smaterializzazioni, e il Novecento sembra portare una tendenza a "occultare o ad annullare il volto e la testa" (Hall), o ancora a portare in primo piano il corpo e la sessualità, complessa e inquieta. Ma il genere artistico incontra anche la società generalizzata, l'umore del nostro tempo.
'Voglio che mi trovi bellissima', recitava una pubblicità di una qualche marca di cosmetici in un angolo di strada, e quest'ansia di gradevolezza e di approvazione pervade anche i nostri smartphone, gli arnesi deputati al selfie. Il selfie è pratica sulla quale non si riflette oramai più di tanto, lo facciamo e basta; per divertimento, per noia, per controllare se siamo presentabili, per condividere uno stato d'animo. Tralasciando gli eccessi e le patologie a cui può portare, come qualunque campo di azione, è interessante il dibattito che in un certo momento ha attraversato il mondo della fotografia. Da un lato autori come Ferdinando Scianna hanno bollato il fenomeno come superficiale e sintomatico di quel narcisismo di cui soffre il nostro tempo (“Vivere come se. Sfuggire alla depressione attraverso continue iniezioni di narcisismo”, così Scianna descrive i selfie nel testo Lo specchio vuoto. Fotografia, identità e memoria, Laterza 2015); dall'altro, autori come il giornalista Michele Smargiassi, lo definiscono innocuo, una normale evoluzione in una società che cerca nuovi vocabolari e nuove modalità di relazione, uno strumento sociale e antropologico da non demonizzare ma da imparare a controllare (soprattutto nel caso dei più giovani). Forse un selfie ha a che fare con quella domanda che al fondo ogni artista si fa nel momento in cui abbraccia scalpello o pennello o obiettivo, e si ritrae: chi sono? Mi vedi con tutta la verità con cui cerco di propormi? Non ogni selfie sarà comunque un autoritratto, perchè quest'ultimo nasce per restare, per tendere una mano nel tempo, aldilà dell'orizzontalità dei social in cui, di fatto, i miliardi di selfie trovano ragion d'essere.



Strano comunque che, nel tempo della smaterializzazione e della decorporizzazione, in cui si è in connessione virtuale, in cui la vicinanza non sempre è presenza corporea, si trovi nel volto, nella superficie di carne e di pelle che più dice di noi, un oggetto di interesse compulsivo. Forse è un modo per cercare un rapporto con quello che non smettiamo di essere: punti interrogativi anche se dotati di fotocamera. Esseri complessi che della fisicità non potranno fare mai a meno, fosse anche quella - incerta - di cui lo schermo del telefono è testimone.


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