Che suono ha la città in cui abitate? Forse vivete in campagna o al mare e siete abituati al silenzio ma chi è cittadino sa che il suono di una città può essere particolare, finanche diventare una voce. Quel che è certo è che oggi
Palermo è silenziosa - come tutta l'Italia - e che il suo consueto trambusto si è smorzato: dallo spazio lì fuori risuona il vuoto delle strade deserte, delle saracinesche abbassate. Il grigio dell'asfalto non è mai stato così visibile ed ecco che ogni tanto si avverte l'eco immensa di qualche sparuta auto o motocicletta che attraversa le vie.
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Gabriele Basilico, Palermo, 1998. |
Che effetto vi fa la città vuota e silenziosa? Vi spaventa, vi rassicura, vi immalinconisce? Quel che vorrei è potere attraversarla - magari dall'alto - per godermi il vuoto surreale e nuovo (in attesa del ritorno alla normalità). Amo le città, amo la condizione metropolitana con tutte le loro difficoltà, e
non potendo andare da nessuna parte mi consolo ricordando i paesaggi urbani che l'arte e la fotografia ci hanno consegnato.
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Gabriele Basilico, Palermo, 1998. |
Non posso non ricordare
una Palermo particolarmente sorprendente e affettivamente significativa, la città sgraziata eppure magnifica delle fotografie di
Gabriele Basilico (1944-2013). Quanto tempo è passato da quel 1998: con gli amici Elisa Fulco e Massimo Cucchiara invitammo il fotografo a fare un reportage su Palermo, con l'idea di cercare una città diversa, meno patinata ma non meno autentica, quella dei quartieri non turistici e più defilati rispetto al centro. Ne venne fuori
il racconto di una città dalla forte identità, sospesa e sileziosa, umana a dispetto dell'assenza di umanità che ha caratterizzato la maggior parte della produzione di Basilico (
Palermo città, catalogo e mostra a cura dell'Associazione Eva Kant, Ex Ospedale San Bartolomeo Palermo; il reportage è stato poi pubblicato in versione ampliata in
Palermo andata e ritorno, a cura di E. Fulco, Edizioni di passaggio 2007). Il suo modo di osservare le città, forse ancor di più quelle a lui ignote, era improntato al rispetto e al rigore, all'attesa, alla capacità di dare spazio a tutto con dignità. Nelle sue composizioni classiche e armoniche, pur nell'assenza di qualunque denuncia, Palermo mostra le sue ferite e le sue gioie: l'apertura verso il mare e verso i monti, il vecchio che convive con il nuovo, gli spazi morti, le brutture, le sovrapposizioni inconsulte.
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Gabriele Basilico, Palermo, 1998. |
I paesaggi urbani di Basilico (che ha lavorato in tutto il mondo, da Milano a Beiruth, dalla Silicon Valley a Shangai, da Rio de Janeiro a Mosca) raccontano di luoghi privi dei loro abitanti. Eppure la vita risuona da tutte le parti. E' una fotografia che alcuni definiscono fredda ma che tradisce a ben vedere uno sguardo pieno di benevolenza nei confronti dei paesaggi osservati. Nel suo immaginario figurativo si possono rintracciare richiami ad un'estetica classica, la ricerca del rigore e dell'equilibrio, esattamente come avviene in certa
pittura che ha celebrato lo spazio urbano in altri tempi e con altri esiti.
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Città ideale, 1480-90, olio su tela, Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale, Urbino.
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La
città ideale della tavola di Urbino ricorda molto da vicino l'aspetto delle città trasmesse dai TG di questi giorni: come se il Corona virus avesse impaurito chiunque già nel Rinascimento!
Il silenzio non potrebbe essere più assordante, amplificato dalla prospettiva geometrica, dal tratto nitido, dal rigore matematico. Non conosciamo l'autore dell'opera - si sono fatti i nomi di Leon Battista Alberti, Piero della Francesca e Luciano Laurana - né la sua destinazione: forse si tratta di una spalliera o di un fondale per una scenografia, ma immaginereste una rappresentazione più efficace del deserto urbano? Come quando si scappa e si lasciano le finestre e le porte aperte. Eppure si tratta di un'immagine simbolo della
riflessione rinascimentale sulla città quale si vorrebbe, razionale e morale, esteticamente gradevole ed eticamente irreprensibile.
Le città ideali del XV secolo richiamano altre utopie, la fiducia nel progresso che è propria della modernità, dell'Ottocento, del Novecento industriale.
La città che lavora e che brulica di attività, che si muove al ritmo incalzante del progresso, di autovetture e motociclette, è la città che interessa ai Futuristi, pure capaci di cogliere l'aspetto avveniristico e tutto mentale dello scenario urbano, attraverso
prospettive che anticipano certo il cinema espressionista come quello fantascientifico.
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Dall'alto: Antonio Sant'Elia, Città ideale, inchiostro su carta, 1914; Tullio Crali, A tuffo nella città, 1939, olio su tela, MART, Rovereto; fotogramma da Blade Runner, di Ridley Scott, 1989. |
La città di
Mario Sironi, che per un po' partecipò dello slancio futurista, è la città del lavoro che porta verso le periferie, la città in cui si ergono edifici immensi e spaesanti. E' una dimensione che sa di desolazione, di modernità ambivalente, come quella che si respira anche nelle
Piazze d'Italia di Giorgio De Chirico. I palazzi lì dialogano solo con il passato, con le ombre lunghe che vengono da altri tempi, che sanno di eterno ma estromettono ogni essere umano.
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Dall'alto: Mario Sironi, Periferia, 1920, olio su tela, coll. privata e Giorgio De Chirico, Melanconia, olio su tela, 1912, Estorick Collection, Londra. |
La città futurista è ottimista e maestosa, la città della Metafisica è un orizzonte intimista in cui l'individuo si perde, entrambe le declinazioni mostrano però una città che si concilia con i suoi oggetti (pur nella specificità di ogni artista e quindi nella difficoltà di farne un discorso di 'corrente'): le architetture sono entità dialoganti tra di loro, non sono solo pietre prive di respiro. Un po' come accadrà con
lo sguardo della fotografia, che fin dai suoi esordi e poi con le novità del XX secolo saluterà la città, soprattutto le metropoli, come scenario di un nuovo sentire. Gli edifici di New York, i grattacieli che puntellano in varie geografie il secolo breve, sono spesso proposti come architetture vive, paurose, silenziose o raggiungibili, ma sono comunque presenti e incantevoli.
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Dall'alto: Berenice Abbott, New York, 1932 e Exchange Place da Broadway, New York, 1934; René Burri, Sao Paolo, 1964. |
Sono immagini di città che anche in assenza dei loro abitanti lasciano presagire quel che accade dentro e fuori gli edifici: si avverte il brusio, il vociare, si sente il fervore delle attività.
Una dimensione totalmente differente troviamo invece in Eugène Atget, il cantore della Parigi assorta di fine XIX secolo, delle strade deserte dove sembra non essere mai passato nessuno, forse dei fantasmi. Walter Benjamin diceva che le fotografie di Atget ricordano la scena di un crimine: qualcosa è accaduto ma non sappiamo cosa. Le scelte del fotografo, ovvero l'inquadratura che predilige l'insieme e che lascia emergere i dettagli a poco a poco, le lunghe esposizioni, la luce rarefatta, fanno sì che si avverta come
la traccia di una presenza che non è più dato sapere. Forse è solo l'abisso visivo e culturale che ci separa da queste immagini, ma osservandole possiamo sentirci anche noi un po' flaneur, come se l'avventura fosse dietro l'angolo, nel senso che qualcosa deve avvenire (come dice R. Barthes,
La camera chiara, 1980).
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Eugène Atget, Rue de la Montagne St. Geneviève e Rue de l'Hotel de Ville, 1921. |
La città non è solo la grande città, metropoli e magnificenza, incanto e larghe piazze,
la città sfugge multiforme e si trasforma: è la dimensione più raccolta della cittadina, il senso di tutto pieno che ci stordisce, è l'invadenza della pubblicità, il dettaglio di una pavimentazione, l'insieme dei colori di chi la visita frettolosamente, è la percezione delle rovine sulle quali siamo cresciuti o su cui ci siamo inariditi,
è il sentirsi a casa in luoghi non luoghi ma comunque nostri, è qualcosa di inafferabile come le città invisibili di cui Italo Calvino ci ha parlato.
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Da sopra: Luigi Ghirri, Fidenza 1985; Paul Klee, St. Germain, acquerello su carta, 1914; Ferdinando Scianna, Metropolitana, Parigi, 1980; Mario De Biasi, Sagrato del Duomo, Milano, 1951; Martin Paar, Roma 2014; Anselm Kiefer, I sette palazzi celesti, cemento armato e piombo, 2014, Hangar Bicocca, Milano. |
In fin dei conti la città è fatta da chi la abita: persone, voci, azioni, desideri, sogni, ma soprattutto incontri. Chiassiosi, eccessivi ma necessari, come quelli che adesso desideriamo, con impazienza e attesa.
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Andreas Feininger, Fifth. Avenue, New York, 1964. |
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