Le forme dell'attesa. Dire quel che si prova attraverso le invenzioni degli artisti

La parola di questi giorni è, per me, attesa. Non che non ce ne siano altre, di parole, come mancanza, dialogo (nel senso del 'due', perchè due siamo dentro casa), o silenzio, sospensione, e via continuando. Ma attesa è quella che più identifica qualcosa che non è solo stato d'animo ma una vera e propria dimensione di vita. Sveglia e progettuale, talvolta; malinconica e ovattata più spesso. Sta di fatto che mi sento dentro un'immensa attesa. Non è nemmeno detto che l'oggetto di questo attendere verrà dai prossimi giorni, forse viene dal passato o semplicemente da quel che è già ora: una condizione nuova e difficile in cui imparare a galleggiare.

B. Klemm, Louvre, 1987.

Spesso mi chiedo che senso ha fare arte o fruire dell'arte, di questi tempi
. La scienza è chiamata all'elaborazione di antidoti contro un virus, la filosofia ad accompagnarci in un tempo e uno spazio di vita diversi da quelli naturali. A cosa servono i musei e le gallerie ora che sono chiusi? a cosa serve parlare ai miei studenti dell'armonia delle Stanze della Segnatura di Raffaello o del furore civile di Guernica di Picasso? a cosa servono le collezioni di tutta un'Italia, implose nello spazio che non comunica con il fuori se non per le immagini che scorrono sui display e i monitor dei tour virtuali?

K. Sherer, Guernica, Moma 1959.

Non ho tante parole per dire questa condizione ed ecco che le immagini come di un personale museo vengono in soccorso. Sono immagini che prendono vita ancora una volta nello spazio incorporeo di un monitor, dunque private della loro materia e del loro senso primario, del contesto (se sono dentro un museo) e del loro peso, della loro grandezza effettiva, in una parola sono senza corpo. Seppure virtuali sono però immagini che fanno parte del mio orizzonte interiore, che stanno in altri contesti. Ecco forse che il senso da qualche parte c'è, ed è quello che la creatività altrui può prestare la possibilità di espressione, una specie di grammatica per dire quello che non si sa dire. Non importa che artista non lo sia, sperimento la creatività nello scegliere le immagini come parole attraverso cui parlare, o nell'accogliere quelle che la memoria mi consegna. Mi sento come dentro alcune invenzioni della storia dell'arte, in particolare ricorrono una fotografia e un dipinto ad olio: parlano più che mai di attesa. Anche di altro, orizzonti, confini, speranze, ma in primo luogo parlano di attesa. La memoria non sbaglia.

H. Cartier-Bresson, Berlino Ovest, 1962.

Henri Cartier-Bresson
(1908-2004) è noto per essere stato uno dei fondatori della fotografia umanista: volti, persone ed eventi colti all’insegna dell’immediatezza. Tra i suoi tanti lavori in giro per il mondo un’immagine che racconta di un famoso muro. Il fotografo lo trasforma in una linea d’orizzonte.
Cos’è un orizzonte? Una linea, una divisione, un’apertura? un ostacolo, una ferita? In fondo, si tratta di una delle tante forme in cui possiamo declinare un limite. Non si tratta solo del confine fisico e tutto tangibile tra due diverse porzioni di una medesima città, Berlino Ovest e Berlino Est, ma della soglia tra la realtà e l’aspirazione a qualcosa di diverso. La capacità di reagire si potrebbe dire.
Come sono ritti e fieri e pieni di slancio le tre figure sul podio. Scrutano verso una qualche lontananza che non si fa vedere. Siamo nella Berlino Ovest del 1962, le atrocità del nazismo sono alle spalle (e il fotografo sarà fatto prigioniero tre volte mentre si trova in Germania al seguito della Resistenza francese) ma ci sono altri conflitti: la guerra fredda che porta una città a dividersi in due.
Non c’è propriamente orizzonte ma un confine, una linea che divide e separa. Ferdinando Scianna, in un bel testo scritto in omaggio al maestro francese evidenzia la libertà tenace, finanche nervosa, del fotografo, refrattario a tutte le costrizioni, a tutte le prigioni (Visti&Scritti, Contrasto 1998,
https://www.doppiozero.com/materiali/henri-cartier-bresson ). Le sue sono le immagini dell’istante decisivo, quando occhio testa e cuore perfettamente allineati catturano la bellezza che emana dal soggetto, la sua forza, la sua energia. Al suo modo di fotografare si accompagna sempre un’idea di istantaneità, di immediatezza, anche quando le immagini risultano poi calibrate ed equilibrate. Potere dell’occhio che riesce ad agire tuffandosi nella realtà. Cartier-Bresson ha spesso parlato dell’immagine come ‘dono’, come qualcosa che arriva quasi per incanto (sta a chi tiene la macchina tra le mani riuscire a cogliere l’attimo). Cosa ha visto in questi tre uomini e cosa vuol tirar fuori da loro? L’idea del progetto, dell’affacciarsi aldilà delle barriere? non riuscendo a identificare pienamente cosa si trovi oltre ma provando a immaginarlo. E il bianco e nero dell’immagine, dal taglio rigoroso, sembra tingersi di vitalità: la postura dei tre, le braccia vigili dell’uomo a sinistra, come in una condizione di concentrazione negli altri. Rigorosi risultano gli edifici se non poveri nell'austerità che viene dalle finestre da cui nessuno si affaccia, ma a dispetto di ciò l’insieme sembra annunciare novità, la possibilità di una qualche trasformazione, di qualche azione. Ci vorranno molti anni, ma la trasformazione arriverà.

C. D. Friedcrich, Luna nascente, olio su tela, 1822, Nationalgalerie, Berlino. 

I colori vellutati del cielo lunare di Caspar D. Friedrich (1774-1880) non riescono ad avere questa energia, ma propongono un orizzonte che sa di malinconia. Siamo in una Germania diversa, più introversa, quella del Romanticismo dei primi dell’Ottocento e di un autore che più spirituale e malinconico non si può. Quanto cielo nelle sue tele, quanto spazio infinito e aperture. Si veleggia lungo le scogliere del nord, su mari gelidi, al cospetto di una natura misteriosa che sollecita la meditazione e grandi domande. In Luna nascente la linea dell’orizzonte è definita, non dobbiamo indovinarla perché si snoda all’incrocio pastoso tra mare e cielo, lì dove il chiarore della luna si fa riflesso, tra azzurri lievi e indaco. Lo spazio è aperto, sincero, non c’è alcun nascondimento. Eppure tutto sa di mistero, la natura sovrasta anche quando sussurra, il nascondimento maggiore riguarda lo stato d’animo delle tre figure, forse anche del pittore che dipinge, forse anche di chi sta dall’altra parte e osserva.
Loro, le figure, non in piedi ma sedute, pensierose anche se non ne scorgiamo il volto, cosa fanno? Sperano? Aspettano? Salutano i velieri in lontananza? Non sappiamo cosa sia in gioco, ma tutto parla di un sentire indefinito, di viaggi che si vorrebbero intraprendere, di navi sulle quali salpare, di ombre vaghe. C’è un’atmosfera sospesa, a dispetto della libertà che viene dall’immensa distesa e dalla gradevolezza della scena. L’orizzonte è sgombro eppure non riusciamo a sentire gioia o vitalità, né fiducia nel futuro. Friedrich ha avuto un’esistenza tormentata, la sua è la Germania del nord, la Pomerania, rigorosa e pervasa di misticismo. Elabora un’estetica del rarefatto, dà vita a scene in cui i personaggi sono visti di schiena, dove si sente l’inquietudine della fede, dove aleggia lo spettro della morte. E in effetti, sul finire della vita, lui che pure aveva avuto un certo seguito non sarà più compreso, tra crisi depressive e umore instabile.

Tre figure, la linea dell’orizzonte, un muro, eppure le forme dell’attesa e dell’immaginazione non sono mai state così diverse. Il senso del fare non è mai bell'e confezionato, forse dovrò costruirlo insieme agli studenti ricordando che abbiamo bisogno di dire quanto proviamo e pensiamo, che abbiamo bisogno di riconoscerlo, anche attraverso l'arte e i nostri personali musei immaginari.

Commenti

Post popolari in questo blog

Ali per sognare. Sul cadere (e rialzarsi) nell'arte

Ritratto senza volto. Pensieri sparsi sulla fotografia

Il paesaggio è fuggito dal quadro: l'educazione civica inizia dalle ore di Storia dell'arte