Pittura e fotografia. Vite di confine all'insegna del nero

Se c'è un colore che parla di profondità, nel caleidoscopio delle simbologie e dei significati possibili nel campo dei colori, questo è il nero. Nero come la paura, come il nulla, registri che nella profondità e nell'assenza di confini trovano la loro cifra primaria. E' in forma di omaggio al nero - nonchè di esperimento - che mi accosto a due opere così lontane eppure in qualche modo così vicine: David con la testa di Golia di Caravaggio (1609) e Autoritratto con teschio, l'ultimo autoritratto di Robert Mapplethorpe, (1988).



Nella loro distanza temporale queste immagini da qualche parte dialogano, in funzione delle storie che raccontano, delle scelte iconografiche e di certi caratteri biografici dei loro autori. Soprattutto, mi pare che trovino un possibile trait d'union nella complessità del nero, questo nero fondo e opaco da cui emergono i soggetti delle composizioni e con loro le esperienze che nella materia dell'oscurità si rendono possibili. David e Mapplethorpe, i protagonisti di queste superfici così intense, si collocano nel territorio della soglia: il momento in cui si attraversa un'esperienza estrema, quella delle decisioni capitali, dell'incontro con la malattia e con il dolore, o quando si intuisce lo spettro della morte.
Il nero, qui, mi pare parli soprattutto di ciò.

Caravaggio, Salomè con la testa del Battista, 1607, olio su tela, National Gallery, Londra.

Caravaggio, Salomé con la testa del Battista, 1609, olio su tela, Museo del Prado, Madrid.

Caravaggio è fuggitivo da qualche anno quando dipinge il David, soggetto che richiama altre decollazioni, altre terribilità della sua pittura, drammatica e realistica, rude senza perdere solennità: certe opere raccontano il limite tra la vita e la morte, quello spazio tra tenebre e luce in cui cresce qualcosa di ancora vitale ma prossimo alla fine, o ancora qualcosa di logoro, smunto e malato. Tocca sempre il registro dell'autentico, è diretto, sensuale e intenso, inconfondibile Caravaggio. Qui, nel David, il dramma dell'arte si tinge di sfumature personali. Il pittore è noto per l'irascibilità e i trascorsi rissosi, nel 1606, a Roma, ha ferito a morte Ranuccio Tommasoni e da allora si spinge verso sud per sfuggire alla pena capitale (che consiste proprio nella decapitazione). Napoli, Messina, Siracusa, Malta, Palermo, sono le tappe del suo girovagare comunque produttivo, sempre accompagnato da un'aura nefasta se è vero che da Malta è costretto a scappare, ma il suo chiodo fisso è il rientro a Roma. Secondo quanto scrive il biografo Giovanni Bellori il dipinto fu realizzato nel 1609 a Napoli e rappresenta una richiesta di grazia rivolta al pontefice, affidata al cardinale Scipione Borghese. A Golia, il cattivo della situazione, il pittore dà le proprie sembianze. Quella testa che pende dalla mano ferma e giovanile, grondante sangue, la testa che bissa il nero del fondo attraverso il nero della voragine della bocca, è la testa di chi sa di avere sbagliato e si offre alla gogna pubblica. Il tema dell'autoritratto è duplicato nel giovane, nel David: un adolescente che sta riflettendo - la testa leggermente inclinata -, turbato, come a ricordare cosa è stato quell'uomo segnato dal tempo prima che la vita lo travolgesse. La formula incisa sulla spada, H-AS OS. dice Humilitas occidit superbiam: parole di chi si sa colpevole e si mostra consapevole.



Tutto converge verso la testa: il braccio che la regge, l'inclinazione dello sguardo del ragazzo, la spada. Diverse sono le versioni del soggetto realizzate dal pittore, insieme ad altre tele di altro soggetto in cui si assiste al momento della decapitazione o all'ostensione del capo. Giuditta e Oloferne, le varie Salomé o la decollazione di san Giovanni, raccontano di un tema forte dagli inevitabili risvolti simbolici: il senso di colpa, la castrazione, la destituzione del potere. La testa non è più parte del corpo ma simbolo del tutto, è un elemento a se stante che non sembra esprimere razionalità e umanità bensì l'orrore, la violenza e la morte, l'aspetto più oscuro dell'esistenza. Così come oscura doveva essere certa atmosfera di Roma, pullulante di delinquenza e di violenza, terreno in cui il pittore sembra muoversi a proprio agio senza con questo volerlo incasellare nel famoso 'maledettismo'.


Caravaggio, Giuditta e Oloferne, 1600, olio su tela, Galleria Nazionale di Arte antica, Palazzo Barnerini, Roma. 

L'iconografia di David e Golia attraversa con particolare intensità la storia dell'arte moderna a partire dal Quattrocento, allo stesso modo degli altri soggetti relativi le decapitazioni, frequenti nel Medio Evo e durante il Rinascimento. La testa è la sede dello spirito, ospita ciò che tiene in vita e che ci abbandona al momento della morte. L'usanza di popolazioni antiche come i Celti o ancora dei romani era quella di conservare le teste mozzate dei nemici o di esporle in pompa magna, e propria dei romani è l'attitudine alla memoria attraverso la realizzazione di maschere funerarie degli avi.
Nel David e Golia di Caravaggio la scena si riduce all'essenziale, non c'è spazio per orpelli e per narrazioni ulteriori. La vittima e il suo eroico carnefice, in un dialogo muto e impossibile messo in risalto dalla luce radente che viene da sinistra. La luce dà peso a ciò che unicamente, qui, si sta raccontando: nell'iconografia del sacro la prefigurazione del regno di Dio, nell'orizzonte dell'artista la richiesta di guardare alla sua colpa con occhi diversi.
Eppure, c'è sempre qualcosa di potentemente carnale in Caravaggio, perfino in questo suo lavoro che parla di atrocità. Il registro del carnale deriva dal riconoscimento della dimensione profondamente umana dei suoi soggetti, esattamente come avviene in un altro maestro della carnalità e dell'umano. Non è un pittore, ma si serve della luce.

R. Mapplethorpe, Raymond, 1985.

R. Mapplethorpe, Calla Lily, 1987.

Nel celebre autoritratto del 1989 Robert Mapplethorpe non riprende certamente una decollazione ma sceglie di lasciare apparire unicamente il suo volto - la sua testa -, come se emergesse dal fondo e dal nero dell'insieme, scollato e indipendente dal resto del corpo. Il volto, il capo e la sua mano destra, ecco quanto si offre allo sguardo. Si tratta di un ritratto/autoritratto poichè ogni dettaglio, la posa, l'inquadratura, tutto rimanda a decisioni prese dal fotografo. Seppure lo scatto sia materialmente agito dal fratello Ed, suo assistente, viene considerato un autoritratto.
Come Caravaggio Mapplethorpe è diventato un'icona del suo tempo ed ha travalicato i confini di cerchie ristrette, è stato accompagnato da un'aura di terribilità, almeno per quanto riguarda la sua biografia. Celebri sono i trascorsi nella New York underground degli anni 70, celebre l'esplicitazione estrema dell'omosessualità attraverso le immagini che raccontano di corpi avvezzi al sadomaso e muscolosi. Mapplethorpe è stato il cantore per eccellenza del corpo maschile e dell'eros più estremo, pronto a sconvolgere ed a far parlare di sé. Eppure, nonostante tale cornice, la sua fotografia si accosta maggiormente al classico piuttosto che ad un qualche realismo. I corpi, nudi o fasciati dal latex, scultorei, i fiori che evocano membra umane, i volti intensi e bellissimi, tutti i soggetti osservati dall'obiettivo di Mapplethorpe hanno la potenza e la grazia del classico, acquistano armonia ed eleganza a dispetto di ciò che possono essere al di fuori dell'immagine in bianco e nero. Parlano di misura, di delicatezza, di una ricerca spasmodica di bellezza e di perfezione. I dettagli anatomici diventano mondi dalle superfici rugose mai volgari, diventano opere d'arte in un processo di estetizzazione mai mortifero. I suoi scatti possono essere perturbanti, trasgrediscono i confini tra arte e sessualità ma non vi si trova traccia di pornografia, se prendiamo per buona la definizione che ne dà Roland Barthes (La camera chiara, Einaudi 1980, dove Barthes dedica alcune pagine all'autoritratto del 1975) quando dice che la fotografia pornografica fa del sesso un oggetto immobile, un feticcio del desiderio 'greve', mentre la foto erotica trascina il desiderio verso ciò che sta fuori dal campo visivo, e dunque lascia immaginare, senza trasformare il corpo in qualcosa di insignificante.

R. Mapplethorpe, Autoritratto, 1975.

R. Mapplethorpe, Autoritratto, 1988.

In questo scatto, l'ultimo rivolto a se stesso, non vediamo erotismo, non vi pulsa la vita e la giocosità che caratterizzano altri momenti della produzione di Mapplethorpe; al contrario, osserviamo un uomo che ci guarda dritto negli occhi, consumato, logoro e invecchiato. E' il dicembre del 1988, Robert ha solo 43 anni ma ne dimostra di più. E' gravemente malato, morirà di AIDS dopo poco tempo, il 9 marzo del 1989, a Boston. Non sarà casuale la scelta di doppiare il proprio volto nell'unico altro elemento che compare in questo nero, il pomello di un bastone a forma di teschio (elemento che peraltro ritorna nella sua produzione giovanile, come rileva Sara Antonelli in questa bella puntata della trasmissione di RAI3 Wikiradio). Un volto d'uomo scavato e ancora bello sottolineato da un piccolo teschio che si colloca in continuità con quel viso, a quel viso collegato dalla mano che lo brandisce. Come se fossero in comunicazione, come se fossero quasi la stessa cosa, l'uno lo specchio dell'altro. Non sarà un caso per un artista che, come tanti, come Caravaggio, si è confrontato a lungo con l'autoritratto; che ha fatto parlare di sé e che sceglie di guardarsi fino alla fine, in un momento estremo.

R. Mapplethorpe, Autoritratto, 1980.

Al contrario di Caravaggio Mapplethorpe non è in fuga, è all'apoteosi del suo successo (come Caravaggio quando dipinge il David) ma vive il confinamento della malattia. Come Caravaggio, acclamato quanto censurato dagli stessi committenti, in nome del crudo realismo e della visione umanizzata del sacro, Mapplethorpe ha inseguito unicamente il demone della propria libertà andando contro corrente, non innescando rivoluzioni ma facendo gridare allo scandalo (l'importante retrospettiva del 1988, The Perfect Moment all'Institut of Contemporary Art di Filadelfia innescò un dibattito sulla censura di livello nazionale); facendo della grammatica della luce e dell'essenzialità, della pulizia delle forme e dei volumi, la propria cifra. Una cifra che tratta la sessualità con lo stesso incanto con cui osserva nature morte e volti, senza menzogna ma con sguardo franco e diretto, con l'eleganza dell'essenzialità e l'intelligenza della profondità. Ogni scatto di Mapplethorpe, dallo stile inconfondibile, sembra stabilire un rapporto coinvolgente ad un tempo con lo spettatore e con il soggetto ritratto, come se luce, forme e sguardo avessero come unico obiettivo il lasciar emergere l'umanità dei soggetti, anche quando incerti, arrabiati, indifferenti, anche quando scabrosi. Nei ritratti è infatti la personalità del soggetto che emerge, frutto di un ascolto e di un'empatia che il fotografo prova a stabilire nel suo studio; nei nudi e nelle fotografie erotiche è l'eros vissuto che compare, difficile, destabilizzante, violento, tenero o derelitto, ma pur sempre vissuto e mai esposto come carne.

E' questa intensità, questa capacità di profondità e di turbamento, la messa in scena attraverso l'arte di pulsioni e oscurità che abitano uomini e donne, che fa sì che osservare un Caravaggio come osservare un Mapplethorpe non lasci mai indifferenti.







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