Guardare con le mani (o con la coscienza). L'esperienza luminosa di John M. Hull

Vi siete mai chiesti qual è il vostro modo di stare al mondo, con sincerità e coraggio? Vi siete mai chiesti, in profondità, cosa vuol dire stabilire un contatto con ciò che vi circonda, con le persone che amate e quelle che nemmeno conoscete? Cosa significa per voi il timbro di una voce, il suono della pioggia o la carezza del vento? Per la maggior parte di noi alcune di queste domande sono troppo grandi, altre decisamemente futili, eppure viene spontaneo porsi questi interrogativi - e molti altri - durante la lettura di un bellissimo libro, solare a dispetto del titolo: Il dono oscuro, di John M. Hull (Adelphi 2019, con una prefazione di Oliver Sacks, traduzione di F. Pacifico). Australiano, professore di Teologia e Scienze religiose a Birmingham, scrittore di successo e controcorrente, Hull perde progressivamente la vista nell'arco di circa cinque anni. Ha solo 45 anni e il mondo intorno a lui comincia a diventare sempre più buio e lontano. 

The mounth of Krishna, di A.P. Cabrera & A. Albarràn (copertina del libro Il dono oscuro, di J.M. Hull).


Il libro si presenta come un diario, una serie di appunti e di riflessioni relativi all'esperienza del perdere la vista. La scrittura, lucida e puntuale, racconta una delle condizioni più forti che un essere umano possa attraversare, ovvero vivere un cambiamento, una trasformazione radicale, una perdita che si fa lutto, che via via che si procede nella lettura si comprende essere un'occasione per essere ancora di più, senza alcuna indulgenza, senza alcun pietismo, ma unicamente nel segno della dignità, della ricerca della consapevolezza e della vivacità intellettuale. "Bisogna ricreare la propria vita o si viene distrutti", scrive Hull, consapevole di porre alla sua nuova condizione domande difficili: quale il significato del diventare cieco? quale il senso di tale evento nel suo destino? quale il modo di stare al mondo per qualcuno che vive secondo differenti paramentri sensoriali difficilmente comprensibili ai vedenti? "Le immagini hanno una loro forza, e la vita ci appare dotata di senso solo in seguito alla ricomposizione che esse operano sul contenuto accidentale dell'esistenza. La cosa più importante nella vita non è la felicità ma il significato. La felicità è il prodotto di catene di accidenti che tendono al nostro benessere. La cecità non mi rende felice. Non l'ho scelta, né mi è stata inflitta. Ciò nonostante, come ogni evento accidentale, può acquistare un senso". 

Ecco, viviamo di immagini, in un mondo e secondo modalità perlopiù dell'ordine del visuale. La nostra cultura è intrisa fin dall'antichità di una sorta di 'tirannia' dello sguardo (prendo in prestito il titolo di un bel saggio di Claudio Franzoni, Tirannia dello sguardo. Corpo, gesto, espressione nell'arte greca, Einaudi 2006). La vista non è forse il senso più importante, per Aristotele, perchè ci permette di cogliere le differenze? Il nostro linguaggio, la maniera di occupare e percepire lo spazio, il modo di relazionarci con gli altri, la memoria e la scrittura, i sogni stessi, tutto questo è fatto di immagini. Cosa succede quando tale orizzonte viene a mancare? Le considerazioni dello scrittore sono stupefacenti, per le prospettive inusuali e potenti che propongono, per la validità e l'interesse che offrono anche - o soprattutto - a chi ci vede benissimo. Tra descrizioni e molte domande, racconto dei sogni e dell'avvicendarsi di innumerevoli problemi, il racconto procede in un crescendo. Il mondo, secondo Hull, non si divide nelle categorie di vedenti e non vedenti, quanto in quelle di vedenti e 'vedenti-con-tutto-il-corpo', secondo una dicitura che racchiude tutta la complessità della condizione della cecità e delle riflessioni che ne conseguono. Essere vedente-con-tutto-il-corpo vuol dire scoprire un modo peculiare di stare al mondo, che è quello per cui ci si trova immersi e sprofondati nel proprio corpo, nell'esperienza totalizzante delle sue percezioni: il tatto e l'udito diventano i canali privilegiati attraverso cui stabilire contatti e costruire legami, attraverso cui orientarsi, alimentare l'amore e la cura, per i familiari, i figli, gli amici, colleghi e studenti. Vedere con tutto il corpo vuol dire essere soprattutto 'coscienza'. "La cecità è come un grande aspirapolvere che cala sulla tua vita risucchiando ogni cosa. I tuoi ricordi, i tuoi interessi, la percezione del tempo e la maniera di passarlo, quella dello spazio e del mondo stesso: tutto viene aspirato. La coscienza viene evacuata e rimani da solo a ricostruirla, con un nuovo senso del tempo, una diversa maniera di pensare il corpo nello spazio e così via. In una situazione simile è inevitabile una drastica revisione delle priorità". Ecco dunque che si mette in campo una sorta di creatività e di apertura, un qualcosa che fa sì che insieme al dolore e alla prostrazione, insieme alla depressione e alla voglia di scomparire (un cieco rischia di perdere il ricordo dei tratti del proprio volto oltre che di quello degli altri), si faccia strada una diversa e nuova scoperta della realtà e di sé. Si scopre così che si possono imparare a conoscere le persone per la loro voce, che si può essere un buon padre anche senza avere mai visto il volto dei figli (molto tenera la parte in cui si racconta delle considerazioni della figlia di 4 anni, Lizzie, che chiede al padre come mai riesce a ricambiare il suo sorriso pur non potendola vedere), che si può sostenere l'imbarazzo e la frustrazione, interrogarsi sui colori e imparare a "guardare con le mani". Che c'è sempre qualcosa di più di quanto possiamo capire in ogni situazione, anche in quelle più familiari, perché "se guardi attentamente - sì, utilizza proprio il verbo 'guardare' - c'è spesso un'altra porta".

J. L. Borges ritratto da R. Avedon, 1975.


Vengono in mente altre esperienze luminose di cecità, tornano in mente le figure dell'antichità, il poeta per antonomasia Omero, l'indovino Tiresia e naturalmente Edipo, che si acceca per punirsi di ciò che non ha saputo vedere; viene in mente il potere evocativo della poesia di Jorge Louis Borges, scrittore cieco lui stesso, che parla della penombra di chi non vede più come un'ombra che "scorre per un dolce declivio/ e assomiglia all’eternità" (Elogio dell'ombra. Del rapporto di Borges con la visione e la fotografia ho parlato qui). Viene in mente la complessità e la negatività attribuiti dalla nostra cultura all'oscurità e al buio (la cecità non è assimilabile a una forma di buio, si chiede Hull?), messi peraltro in evidenza in un libro recente, Buio, di Francesca Rigotti (Il Mulino 2020). Ambiguità con cui imparare a convivere, da riabilitare, riscoprendo il buono e il sano di quel buio che, ad esempio, le nostre città iperilluminate rendono invisibile, inesistente, irraggiungibile. 

R. Magritte, I misteri dell'orizzonte, 1955.


Ci si chiede come si può percepire e godere dell'arte quando si è immersi nell'oscurità e lo spazio soggiace a leggi diverse. Hull non menziona direttamente vicende che contemplino la fruizione dell'opera d'arte, salvo utilizzare spesso metafore (il linguaggio, ecco) del registro artistico (uso dei termini come mosaico, disegno, acquerelli, per raccontare pensieri e vissuto) o far riferimento alla fotografia come supporto per la memoria dei volti, eppure la lettura del testo richiama nel profondo anche questo orizzonte (documentandomi mi sono imbattuta in soprendenti esperienze che coinvolgono ciechi e fotografia, in questo post del blog di Michele Smargiassi, in cui si parla della ricerca di Simona Galbiati, Il mondo che non vedo. Ciechi e fotografia). Ad esempio, quando rivela la riscoperta della tattilità degli oggetti, semplici o preziosi, con la conseguenza di accedere alla conoscenza attraverso il potenziato senso del tatto, come nel caso di piccole sculture, manufatti, tessuti e stoffe. Ricorda la visita ad una mostra e il piacere nuovo e pieno provato toccando un filo di perline di vetro levigato e un orcio di terracotta del Sudamerica. "Sono sorpreso che ci siano voluti quasi cinque anni perché capissi l'importanza di esperienze come questa. Peso, forma, consistenza, temperatura e suoni emessi dagli oggetti: sono queste ora le cose che cerco". Non possiamo certo ribaltare l'evidenza della nostra percezione estetica, delle modalità con le quali ci accostiamo alla fruizione della pittura, eppure credo che ampliare il nostro spettro di esperienze includendo le riflessioni di chi non vede, né la pittura né altro, possa essere un arricchimento. E in ogni caso, il viaggio che Hull intraprende (le altre immagini principali utilizzate, richiamate da Sacks nella prefazione, sono appunto 'tunnel' e 'viaggio') è un percorso che ci porta in quella dimensione che è già o precede la dimensione estetica, quella in cui cerchiamo di capire e di vivere la percezione, interrogando i sentimenti e i pensieri che ne derivano, scoprendo che siamo sempre 'per' qualcosa. Anche quando siamo nel buio, nell'oscurità più fonda e nera, quello che Hull ci ricorda è che possiamo essere per qualcosa e per qualcuno, che possiamo cercare di essere con questo qualcuno, perchè in fondo "è cieco colui che non partecipa alla relazione" (M. Buber). 




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