"Più inesprimibili di tutto sono le opere d'arte". Su parole e immagini
Una frase di Rilke: "Del resto, per afferrare un'opera d'arte, non c'è niente di peggio delle parole della critica d'arte. (...) Quasi tutto quello che avviene è inesprimibile. (...) Più inesprimibili di tutto sono le opere d'arte, questi esseri segreti, la cui vita non ha fine e che costeggiano la nostra che passa" (da Lettere ad un giovane poeta, Adelphi 1980).
A proposito dunque di opere d'arte e della possibilità di 'dire', a proposito dell'opportunità di trasmettere qualcosa sulla loro esistenza, il loro corpo e il loro carattere, grazie a quel poco (o molto) che abbiamo: le parole, il pensiero, la conoscenza. In particolare, mi ritrovo a riflettere su ciò, a margine di alcune letture accomunate da un filo rosso: la fotografia. Fino a che punto ci si può spingere nell'accostare o aggiungere parole a quel che secondo Rilke rifugge massimamente dalle parole? Fino a che punto ci si può spingere per avvicinare, raccontare, commentare, quelle esperienze che quando compiute vivono della loro intrinseca necessità, cioè le opere d'arte tutte, poesie, immagini, suoni od oggetti che siano?
Se è vero che un'esperienza colma di senso non ha bisogno di granchè, è anche vero che delle parole non possiamo fare a meno, anche quando maneggiamo le immagini dell'arte e anche a costo del rischio di incorrere in banalità. Penso a chi fa il mio mestiere, che è quello dell'insegnante, affidato appunto alla parola per stabilire contatti e tessere relazioni, che conduce verso viaggi servendosi delle parole che cercano non tanto di 'spiegare' quanto di suggerire, come fossero strumenti e chiavi da adattare ciascuno che ascolta e a sua volta elabora alle personali porte di accesso alla vita e al mondo.
M. Jodice, Demetra, 1992. |
Le parole possono spiegare l'arte? Non so rispondere a questa domanda - forse mal posta ma inevitabilmente presente nel mio orizzonte di insegnante di storia dell'arte, dunque insegnante che più di altri dice intorno a quanto viene visto - ma delle parole ci serviamo per fare esistere stati d'animo e pensieri, anche quelli suggeriti appunto dagli oggetti visivi. Come delle fotografie. Penso in particolare alle immagini 'archeologiche' eppure così vive e attuali di Mimmo Jodice. Ne parla Salvatore Settis in Incursioni. Arte contemporanea e tradizioni (Feltrinelli 2020. Il saggio Mimmo Jodice fotografa gli Antichi risale però al 2016). Cosa aggiunge Settis alla lettura di questi resti dell'antico, frammenti e interi di sculture, pareti e scorci di architetture, alla base della ricerca condotta negli anni dal fotografo napoletano? Come una strada parallela che si interseca e attraversa la superficie dell'immagine ho trovato il testo di Settis significativo e arricchente, come fosse un ulteriore strumento rispetto al mio occhio per trovare la dimensione narrativa e dunque interpretativa di queste foto: "(...) l'archeologia di Jodice non è libresca, non indugia sulle date, non "documenta". Suggerisce, invita, impone di guardare con i suoi occhi, ma mette a fuoco simultaneamente il passato (dell'oggetto rappresentato), il presente (di chi lo fotografa) e il futuro (di chi ne osserverà l'immagine)". Si tratta di immagini in bianco e nero di grande rigore, nitide e chiare, anche quando sussurrano soltanto la dimensione di un tempo lontanissimo, remoto, che parla però ancora, attraverso la peculiarità dello sguardo fotografico che frantuma ed esplode. "Sgranando i margini di un'immagine e accentuando la messa a fuoco del suo centro, sfocando i contorni di una statua, giocando per sovrapposizioni, filtri, polarizzazioni, solarizzazioni, Jodice non rappresenta, crea il movimento e lo innesta nelle sue foto come un ingrediente risolutivo". Ecco, l'ingrediente sembra essere quello del tempo, materia inafferrabile e sfuggente, di cui è davvero difficile dire e intorno a cui è ancor più complesso vedere, eppure sedimentata in queste superfici, in questi occhi di pietra e nelle pietre stesse che si fanno spazio e movimento temporale.
M. Jodice, Anfiteatro romano di Capua, 1992. |
Pietra. Le parole di Settis e le immagini di Jodice evocano altre parole ancora, sono quelle che Yourcenar fa dire all'imperatore Adriano: "Ho ricostruito molto: e ricostruire significa collaborare con il tempo nel suo aspetto di 'passato', coglierne lo spirito o modificarlo, protenderlo, quasi, verso un più lungo avvenire (...). La nostra vita è breve: parliamo continuamente dei secoli che han preceduto il nostro o di quelli che lo seguiranno, come se ci fossero totalmente estranei; li sfioravo, tuttavia, nei miei giochi di pietra: le mura che faccio puntellare sono ancora calde del contatto di corpi scomparsi" (Memorie di Adriano, Einaudi 1994).
M. Luskacova, Pellegrino addormentato, 1968. |
John Berger ha definito giustamente futile l'esercizio del descrivere delle fotografie a qualcuno che non ha possibilità di vederle con i propri occhi: "il visivo non si lascia mai tradurre integralmente nel verbale". E però, si chiede il critico, perchè talvolta fatichiamo a vedere, a vedere davvero, delle foto? Berger si chiede ciò parlando di un lavoro di Markéta Luskacovà, e in particolare del Pellegrino addormentato del 1968 (in Capire una fotografia, Contrasto 2016). Si tratta di un'immagine dolce e struggente al tempo stesso, in qualche modo dolorosa e perfetta, che suggerisce tenerezza, compassione, domande sul perchè e il come. E' un'immagine alla quale le parole di Berger accordano una dimensione potente, che ha il sapore della poesia stessa. Scrive Berger: "Sono incline a credere che a Markéta Luskacovà sia stato affidato un incarico segreto, mai assegnato prima a nessun fotografo. E' stata convocata dai Morti. Come abbia fatto a raggiungerli, non lo so. (...) Le persone che fotografava si fidavano di lei; le hanno addirittura permesso di entrare in intimità con loro. Era un requisito indispensabile per portare a buon fine la sua missione, perché da lontano non avrebbe potuto fotografare la presenza dei Morti nella vita dei viventi (...). In alcune fotografie ha fallito, in altre fotografie ce l'ha fatta; è riuscita a svolgere il suo compito e ha prodotto foto che nessuno aveva mai fatto prima. Vediamo le persone fotografate in tutta la loro intimità e tuttavia non sono lì; sono altrove in compagnia dei loro vicini: i morti, i non nati, gli assenti".
Non so se trovo più struggente l'immagine, così aggraziata e vera, in cui ciascuno può rivedere qualcuno di familiare su un giaciglio, su un letto di ospedale, su un letto solo addormentato e solo, o ancora l'altro, lo sconosciuto per antonomasia che non ci guarda, fermo e indifeso, o queste parole che evocano i Morti pure in modo paradossale e vivo, guardando ai vivi e al nostro bisogno del ricordo. E queste parole in prosa che sanno di poesia, rimandano ad una poesia vera e propria, da poco scoperta ammetto, Fotografia dell'11 settembre, di Wyslawa Szymborska (in Discorso all'ufficio oggetti smarriti, Adelphi 2004. La poesia è della raccolta Attimo, 2002).
Può la poesia - la parola dunque, e il silenzio che essa trattiene - evocare un'immagine, dare altra sostanza a un'immagine che è entrata nelle vite di tutti noi? Può, addirittura, evocare la storia, le sue ferite e le sue tragedie? Lo sconquasso dei pensieri e dei sentimenti? Ecco come riesce, come una carezza, la poetessa polacca premio Nobel:
Sono saltati giù dai piani in fiamme -
uno, due, ancora qualcuno
sopra, sotto.
La fotografia li ha fissati vivi,
e ora li conserva
sopra la terra verso la terra.
Ognuno è ancora un tutto
con il proprio viso
e il sangue ben nascosto.
C’è abbastanza tempo
perché si scompiglino i capelli
e dalle tasche cadano
gli spiccioli, le chiavi.
Restano ancora nella sfera dell’aria,
nell’ambito di luoghi
che si sono appena aperti.
Solo due cose posso fare per loro -
descrivere quel volo
e non aggiungere l’ultima frase.
Niente altro da aggiungere, se non la meraviglia di fronte all'arte. Rendendomi conto a cose fatte di avere evocato esperienze, immagini e parole, relative al tempo che non è più, a vite che non ci sono più. E non è forse un caso, allora, che il pensiero vada a chi di amico e stretto, e vicino e amato, in questo giorno esatto, non è più tra queste pietre a cercare parole o a far fotografie.
In ricordo di Marina, 18 giugno 2021.
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