Il mondo alla finestra (o sul display). Le emozioni e le parole per raccontarle

Sabato 23 ottobre: mi trovo a Palermo, cammino per strada e costeggio la scuola professionale vicino casa. Soffia vento di scirocco e così una specie di estate ci confonde mentre il calendario ricorda che siamo in autunno. Le finestre delle aule della scuola sono aperte, un ragazzo affacciato tuona con vigore ‘Buongiorno, mondo!’. Ha un tono sorridente, la voce sicura: mi fermo alzando la testa per cercarlo con gli occhi, curiosa. Non so bene a chi si rivolgesse, forse a nessuno, forse davvero al mondo tutto, all’orizzonte fuori dalla scuola in quel momento. Un fuori che da adolescenti non si vede l’ora di scoprire o che mette paura, un orizzonte opaco, insondabile e attraversato da ombre lunghe a dispetto della luce bianca.

Cosa vedono, cosa sanno, cosa pensano del mondo ‘fuori’, i nostri ragazzi? Cosa sanno del mondo che si agita oltre le finestre delle aule in cui trascorriamo così tanto tempo insieme? Domande che sono con me ogni volta che entro in classe, anche quando mi scordo quanto sia importante chiedere. E ascoltare, provare ad ascoltare. Domande che si accompagnano a quell’altra forse ancora più importante e difficile, ovvero ‘qual è il tuo mondo, adesso? E come stai in questo tuo mondo?’.

Nelle classi in cui entro per lavoro - e da qualche anno ho esperienza di varie tipologie di scuole e territori - intuisco la varietà dei pianeti in cui abitano le mie alunne e i miei alunni adolescenti. E la condizione di quell’età è per sua natura complicata e tormentata, singolare per statuto; eppure, c’è almeno un aspetto che ritorna in ogni dove e che emerge ora nell’uno ora nell’altra, con insistenza: la paura. Gli adolescenti incedono con i loro zaini pesanti sulla schiena, ‘fragili e spavaldi’ come in un libro di Pietropolli Charmet, talvolta sorridenti, talvolta indifferenti, ridono, ti guardano con gli occhi tondi e stupiti, chiacchierano tra loro in quel modo speciale che si ha tra pari, eppure, o l’uno o l’altra, adesso o domani, manifestano una paura che ha ai miei occhi qualcosa di speciale. 

D’accordo, la paura è un’emozione necessaria e vitale, in più viviamo un tempo difficile, per cui alle incertezze relative al mondo del lavoro e alle opportunità per il futuro si aggiungono le incertezze che derivano dall’ondata pandemica che ci ha travolto. E poi la società, la tecnologia, l’ambiente, etc. etc. Eppure, nulla mi toglie dalla testa che la paura che attanaglia ragazze e ragazzi, un’emozione che diventa ora inquietudine, ora ansia, panico, angoscia, terrore, che rende pallidi i volti e silenti le bocche, sia una paura molto forte e antica, profondamente correlata al modo di vivere che ci siamo costruiti da qualche tempo a questa parte, e dunque correlata anche al modo in cui la scuola è stata costruita, spesso un luogo in cui si mette al centro l’apprendimento mnemonico e nozionistico, l’apprendimento come prestazione, senza dare il giusto peso al piacere della riflessione, al dubbio, all’incertezza stessa che si accompagna al pensiero e al ragionamento. Alla scoperta di sé.


F. Goya, Il sonno della ragione genera mostri, dalla serie Capricci,acquaforte, 1797,
Biblioteca Nacionale de Espana, Madrid. 

In una quinta, dunque una classe che si avvia agli esami di maturità, studiamo il Romanticismo. Goya, Délacroix, i cieli infiniti di Friedrich. Di fronte alle pitture nere di Goya, nere di nome e di fatto perché immagini oscure e torbide, o di fronte alla celebre incisione 43 dei Capricci, esprimono pareri contrastanti: individuano la dimensione di inquietudine, ricorrono spesso all’aggettivo ‘cupo’ e ‘triste’, ma non sanno sempre dare un nome alle emozioni, non trovano altri termini, altre risonanze, altre domande da rivolgere a quest’opera così moderna anche se settecentesca. Eppure i loro volti appaiono spesso cupi e tristi, preda di qualcosa che si muove tra l’ansia che blocca e la paura che vorrebbe farli scappare, ma non sanno dare un nome alle emozioni. E se non diamo loro un nome non diventeranno ancora più ignote e dunque spaventose? E allora si prova a immaginare: cosa agita l’uomo che si copre il volto circondato da uno zoo di volatili e felini improbabili? Cosa poteva provare un uomo - una donna - al tempo di Goya, o il pittore stesso, e cosa potremmo sentire noi oggi, per desiderare di rinchiuderci in noi stessi? Quante sfumature esistono tra la paura necessaria e preziosa e l’angoscia che ci blocca e che non ci fa vedere nulla di quel che ci circonda? che forma hanno i nostri incubi, i nostri fantasmi? La paura che viene perlopiù evocata è quella del fallimento, la paura di non riuscire, fuori e dentro la scuola. La paura del futuro. Spesso, purtroppo, le parole si bloccano al momento delle verifiche, i colloqui che ci servono a valutare, ed ecco che si materializza la paura del voto, ancora prima la paura di non farcela, molto prima di averci provato. Emerge la paura di non essere apprezzati dagli altri, di essere rifiutati, di essere visti come diversi e inadeguati. Paure che in qualche modo - dico ciò timidamente, in funzione delle mie esperienze sparse - sembrano parlare di una sorta di cortocircuito: da un lato si avverte la solitudine, reale o temuta, si patisce e si soffre del rischio di essere messi all’angolo, isolati; dall’altro, si cerca spasmodicamente la conferma altrui, l’apprezzamento che passa dall’esposizione ad oltranza di sé, dall’accettazione secondo codici e norme condivisi e dunque non più singolari. 

Quante volte ho sentito ragazze e ragazzi affermare che questo è il tempo del distacco e dell’indifferenza, il tempo in cui ci si chiede conoscendo già la risposta: ‘Ma io cosa posso fare? E in che modo questo fatto mi tocca?’. Forse è il tempo dell’assuefazione (come dicono alcuni alunni, non con queste parole, ma il senso è questo), il tempo dell’abitudine a notizie, eventi, immagini, poiché tutto scorre indistinto e senza spessore, in un tempo che è un continuo presente subito archiviato sugli schermi dei nostri display. In alte epoche l’arte era una finestra sul mondo, penso al Rinascimento ad esempio; oggi l’unica, o almeno privilegiata, finestra sul mondo ‘fuori’ sembra essere per molti adolescenti e non solo lo smartphone.

Mi chiedo se paura e distacco non vadano insieme, come in una sorta di minuetto, e chiedo aiuto allora, oltre che all’arte che studiamo in classe, a chi con altri strumenti indaga e prova a capire. A proposito del distacco che rende gli altri irraggiungibili anche se fisicamente presenti, scrive Francesca Rigotti: “Si noti che a un sempre più frequente uso del toccare tastiere e tasti o del semplice sfiorare e dilatarli con le dita corrisponde nella nostra società singolare una diminuzione del toccarsi fisico. La società diventa composta da monadi (…) la nostra è la società che non si tocca, che evita il contatto: ognuno ha più spazio che mai (…) ma le persone non si abbracciano e non si toccano: tendono a tenersi a distanza spontaneamente ben prima che i regolamenti sanitari le obbligassero a farlo forzatamente” (L’era del singolo, Einaudi 2021). E poi la paura, e le ansie, e il terrore. Scrive Vito Mancuso: “Penso che a ognuno spetti il compito di interrogarsi su quali siano le proprie paure: se più individuali o sociali, se più legate ai problemi economici o alla salute, se riguardano più gli altri o se stessi, se più dovute a eventi puntuali o generali, se più connesse con questo presente da cui molti vorrebbero evadere oppure con un passato che non vuole passare, oppure con un futuro che si vorrebbe poter allontanare tanto è anonimo e minaccioso (…) Per questo è importante riconoscerle e tenerle sotto controllo, un po’ come facciamo con il volto che guardiamo con attenzione ogni giorno allo specchio, perché una cosa è certa: la conoscenza di sé passa necessariamente attraverso la conoscenza delle proprie paure”. (Il coraggio e la paura, Garzanti 2020).

Già, la conoscenza di sé. Come accompagnare le nostre ragazze e i nostri ragazzi in questo processo? Complessa e tortuosa per definizione, l’esperienza del conoscere se stessi sembra oggi se possibile ancora più complicata, un’odissea faticosa e antica che si svolge nel frastuono generale dato dalla valanga di informazioni, dati, notizie, notifiche. Ci illudiamo di tenere tutto ciò fuori dalle aule vietando l’uso dei cellulari durante le ore di lezione, ma non è così che credo affronteremo davvero il rumore che ci avvolge: attraverso la pervasiva tecnologia questo rumore rompe il silenzio necessario ad orientarsi nello spazio interiore e nello spazio delle relazioni, e di conseguenza anche nella conoscenza, nel contatto da stabilire con il caotico mondo fuori dalla scuola. “(…) che ne è della competenza sociale dei nostri ragazzi, e quali sono le conseguenze in termini di solitudine, depressione, timidezza, come effetto della difficoltà ad accedere a quel faccia a faccia dove, oltre a sentire quel che dice l’altro, si percepiscono i suoi moti emozionali, la qualità del suo sentimento e in generale tutto quel linguaggio che non passa attraverso la parola e neppure attraverso l’immagine, ma solo attraverso il corpo, che fa emergere un’identità che, al pari della forza di un carattere e della fiducia che ispira, non si scarica da un sito web”. Si chiede questo Umberto Galimberti ne Che tempesta! 50 emozioni spiegate ai ragazzi (Feltrinelli 2021). 

Non so come rispondere. Senz’altro provo a dare peso alla ricerca di nomi e forme con cui maneggiare pensieri e sentimenti, ansie e tremori, attraverso le parole e lo studio, attraverso le domande che rivolgiamo alle opere d’arte (che non sono solo ‘immagini’ ma storie, racconti che si snodano in mille direzioni).

Non sempre si riesce ma si continua, e si resta incerti, perfino smarriti noi stessi insegnanti, mentre ragazze e ragazzi continuano a pestare con rapidità eccezionale e misteriosa le loro dita agili sugli smartphone, mentre tu parli di Goya e chiedi delle paure di oggi. Eppure, è un tentativo da fare, ed è quel che l’arte e la letteratura e l’umanesimo insegnano. 


Il desiderio è quello di osservare il mondo alla finestra e magari scendere in strada per viverlo davvero, con tutte le paure del caso ma anche con la voglia di andare incontro a quel che sarà con un ‘buongiorno’ spavaldo.

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