Cosa ti aspetti da me? Sull'arte, le aspettative, l'identità

"Prof, ma se le donne nell'antica Grecia non contano nulla e stanno in casa, come mai la divinità della guerra è proprio Atena, una donna?". Interno giorno in una classe di primo liceo artistico. La domanda apre una vivace discussione e ci porta ad occuparci di Atene e della mitologia, del femminile e dei complessi rapporti tra i generi, nella classicità e con qualche salto nell'oggi. Studiare l'arte del V e del IV secolo a.C., tra un'amazzone di Fidia e una Venere di Prassitele, impone sguardi che vanno ben aldilà della bellezza formale della classico: a partire da una scultura si possono esplorare strade insospettate.

Mimmo Jodice, Amazzone, 2007.

Chiarito che il ruolo di Atena è quello di presiedere alla guerra intesa come strategia e intelligenza, con una certa distanza rispetto alla guerra come violenza che compete ad Ares; maneggiati in qualche modo gli intricati rapporti tra maschi e femmine nell'Olimpo e metabolizzato - forse - lo sconcerto provocato dal racconto della nascita di Atena già adulta dalla testa di Zeus, questo momento di confronto scolastico mi è sembrato una buona occasione per avvicinarmi all'8 marzo. Una data che rischia di diventare stanca, che di fatto mantiene un potenziale educativo da snocciolare tutti i giorni dell'anno, per approfondire quel che cerchiamo di trattare sempre (ci si prova): la complessità dell'esistenza attraverso i contenuti dell'arte. La giornata ufficiale della donna ce la siamo lasciata alle spalle, ma decido di occuparmi del tema in onore di una resistenza contro l'appiattimento che va condotta ogni giorno. 

Ci sono tandi modi di guardare al 'femminile' nelle arti ma non è di donne artiste in quanto tali o di donne soggetto dell'arte che intendo scrivere. Quel che mi sembra più interessante è raccogliere lo stupore delle mie alunne e dei miei alunni per riflettere sulle altre potenziali domande insite nell'interrogativo iniziale: cosa definisce la nostra identità? Cosa si aspetta la società da noi? Come si modula il rapporto tra ciò che siamo, la nostra immagine e il contesto nel quale viviamo? Se Atena incarna la complessità del femminile e del maschile che vanno a braccetto, se Atena porta con sé la possibilità di passare da un'identità all'altra creando cortocircuiti, proteggendo la strategia della guerra quanto la sicurezza dell'intimità domestica, quali altri esempi possiamo trovare per dare conto di questa molteplicità? Non sono domande semplici - piuttosto delle mine esplosive con cui esplorare orizzonti esistenziali quanto intellettuali - ma lo studio di alcune esperienze artistiche si presta ad affrontare il tema pregnante dell'identità, singolare o plurale che sia. Di più, l'arte è il luogo per eccellenza del mutevole e della trasformazione, è il luogo in cui l'individuo può diventare molteplice, in cui il caos dell'ambiguità può trovare forma; l'arte è il luogo in cui sperimentare le contraddizioni senza necessariamente comprenderle, risolverle o domarle

C. Sherman, Untitled# 21

Pensiamo di sapere chi siamo? Pensiamo di sapere cosa aspettarci da chi abbiamo davanti? Niente di più scivoloso. L'identità è una conquista difficile ed un viaggio mai concluso, se non ingannevole. Mi viene in mente il 'viaggio' metaforico che Cindy Sherman compie tra gli anni '70 e '80 con la serie Untitled film stills: 69 fotografie in bianco e nero in cui l'artista americana (nata nel 1954) è al contempo soggetto e autrice, dove di volta in volta impersona dei tipi di donna ispirati al cinema hollywoodiano o europeo, alla cultura di massa, alla pubblicità e alla moda. Ad ogni figura corrisponde un ruolo, una tipologia, una funzione, nonchè un set e una situazione, per una sorta di racconto in cui tutto è sapientemente costruito. 

C. Sherman, Untitled# 31.

Sono immagini celebri dell'arte del Novecento, collocabili in quella dimensione culturale che è stato il crinale del secolo scorso. Eppure hanno qualcosa di attuale, qualcosa che sembra parlare ancora oggi. L'elemento di interesse è che ciascuna immagine produce come un cortocircuito, poichè denuncia attraverso la posa, l'inquadratura e la costruzione iconografica, la rievocazione di qualcosa che esiste già. Le foto di Sherman sono eccessive (e si tratta di un'artista che ha molto giocato sul tema del travestimento, della maschera, del trucco, e continua a farlo con i lavori piu recenti): si propongono come 'copia' di qualcosa che è a sua volta una elaborazione posticcia, uno stereotipo, un'attesa già disegnata, un'identità già configurata da altri. Le immagini della serie mostrano quel che ci si aspetta da un'attrice, da una commessa, da una casalinga... Sembra di trovarsi al cospetto di copie, eppure hanno qualcosa di ancor più autentico rispetto alle presunte originarie immagini. 

C. Sherman, Untitled# 2.

La domanda è appunto la seguente: scegliamo davvero chi essere o siamo agiti da un ruolo, da una funzione, da un'aspettativa? Siamo sicuri di seguire la nostra volontà o assecondiamo i fili invisibili della gratificazione altrui? Al tempo di Sherman lo 'schermo' su cui sfilano gli stereotipi è quello del cinema e dei media, peraltro ispirato agli anni '50 e '60 (impossibile non pensare a tanti Hitchcock); oggi lo schermo è quello dei dispositivi in cui i like e le notifiche dei social contribuiscono a costruire il nostro aspetto, il nostro ruolo e la nostra persona. 

D. Arbus, Bambino con bomba giocattolo, Central Park, 1962.

Cosa accade quando gli altri ci guardano? Soprattutto, quando ci rimandano uno sguardo che non è quello atteso? Se Sherman sembra lavorare con immagini che confermano fino all'eccesso un'aspettativa e il piacere che deriva dall'accogliere tale attesa, altri artisti hanno fatto del 'dispiacere' o della stranezza, finanche della sgradevolezza e del grottesco, materia da investigare. Si tratta di un registro vasto e sfaccettato, portato avanti da artisti e fotografi ma particolarmente forte nel mondo di Diane Arbus (1923-1971) spesso additata come la fotografa del 'mostri'. Forse, più semplicemente, è stata la fotografa dell'ambiguità e dell'intensità. 

D. Arbus, Gemelle identiche, Roselle N.J., 1967.

D. Arbus, Uomo con bigodini, New York, 1969.

"Una fotografia è un segreto su un segreto. Più ti dice, meno sai". Così affermava la fotografa newyorkese, e probabilmente possiamo ritrovare l'eco di un segreto ovvero di un'intimità, di un registro personale e interiore, in numerosi suoi scatti: da quelli celeberrimi delle gemelle del New Jersey - citate dall'amico Kubrik in Shining - o del bambino di Central Park alle figure ad un tempo sghembe e comuni di una New York alternativa, quella del Village o di altri quartieri in cui prendeva corpo una cultura underground ed eccentrica. Non era la prima volta che si vedevano travestiti o altre 'diversità' nella fotografia americana ma senz'altro lo sguardo che rivolge loro Arbus è uno sguardo diretto e franco quanto accogliente e tenero. Uno sguardo neutro? No, impossibile. Le inquadrature sono regolari e simmetriche, il volto illuminato e messo in evidenza, con uno stile pressochè documentario che dischiude a ben guardare un tuffo vorticoso nell'intimità. Le pose sono naturali come i sorrisi o le espressioni, serie timide o concentrate, come si trattasse di un reportage in presa diretta. Eppure questi scatti rendono familiare ciò che è perturbante e ad un tempo rendono inavvicinabile e distante quanto è quotidiano. La bruttezza, l'orrido, il terribile, sono eventi del quotidiano. "Il mistero delle fotografie di Arbus è in gran parte in ciò che suggeriscono su che cosa pensavano i loro soggetti dopo aver accettato di farsi fotografare. Si vedono anche loro così? si domanda l'osservatore. Sanno quanto sono grotteschi? Sembra che lo ignorino" (S. Sontag, Sulla fotografia, 1973).

D. Arbus, Coppia di portoricani su una panchina, 1962.

E noi, cosa ci aspettiamo dalla nostra immagine? Siamo in pace con quello che sentiamo di essere? Gli interrogativi si inanellano l'uno con l'altro: potere dell'arte di metterci al confronto con le nostre vite interiori e sociali: una complessità multiforme e sfuggente. 
Multiforme e sfuggente, o forse più correttamente profondo e complesso, è il lavoro di un'artista che del dialogo tra dimensione individuale e dimensione culturale e collettiva ha fatto tema di ricerca: Shirin Neshat (1957). Di fronte ad alcune sue immagini è inevitabile pensare all'incontro - o allo scontro - tra cultura occidentale ed orientale, alla condizione femminile nell'ambito della tradizione musulmana e più specificatamente dell'islam iraniano (da cui proviene Neshat. Di questa artista ho parlato anche qui). Eppure, a ben cercare e osservare, nei suoi lavori c'è molto di più. Siamo sicuri che una donna adornata o coperta da un chador sia una donna che subisce la cultura di appartenenza? Potrebbe darsi che una tal donna, ripresa nell'evidenza del suo sguardo intenso e diretto, accompagnata da altri elementi ricchi di significato come i versi di una poesia - parola che diventa segno e immagine - o la canna di un fucile accostato alla pelle morbida, abbracci in modo deliberato la cultura nell'ambito della quale è nata? Il bellissimo lavoro Donne di Allah (1994), come tante altre produzioni anche video oltre che fotografiche, dell'artista, racconta di un vero e proprio cortocircuito: non solo ci chiede come immaginiamo che una certa cultura abbia percezione di sé, ma anche come si sviluppa il complicato incontro tra Oriente ed Occidente. Insomma, Neshat parla ad un tempo della propria storia, il racconto di una donna che si allontana dall'Iran alla volta di New York e che poi non riconosce più il proprio paese d'origine, della storia delle donne iraniane che vivono la complessità del confronto tra natura e cultura e delle scelte che ne conseguono, e la storia dello sguardo occidentale che osserva talvolta attraverso la lente dello stereotipo la condizione femminile. Come volesse ricordare che la realtà e il vissuto sono ben più complessi.

S. Neshat, Donne di Allah, 1997.

Alla fine di questo breve racconto so con qualche riflessione in più che l'identità si declina al plurale, che i generi sono faccenda complessa e che gli altri sono sempre tra noi, nel paese d'origine come nelle mete di approdo. Non è certamente un caso che la mitologia greca abbia concepito figure così poliedriche quali Atena Hera Afrodite Zeus e via dicendo, così diversi e complementari tra loro. So anche cosa mi piacerebbe chiedere alle mie alunne ed ai miei alunni: cosa cercate quando vi guardate allo specchio? Quando vi abbandonate al dialogo con l'altro? Qualcunque cosa sia, ricordate che avete il diritto di essere molteplici, che avete un segreto da nutrire e da cui trarre creatività, che sarete sempre di più dell'incontro impossibile (e destinato al caos) tra il vostro desiderio e lo sguardo altrui. 



Commenti

  1. Bellissima riflessione. È molto importante che tu possa condividere questo con le nuove generazioni affinché abbiano un libero pensiero su di sé e sul ruolo delle donne nella società, che la realtà è molto piu articolata di come può sembrare..

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