Morire per una ciocca di capelli. Il corpo delle donne iraniane è anche il nostro

Succede dunque di morire per una ciocca di capelli. Lo sapete tutti: il 13 settembre, a Teheran, la ventiduenne Masha Amini è stata arrestata dalla 'polizia morale' perchè non indossava correttamente il velo, l'hijab. Amini è morta qualche giorno dopo per il trauma cerebrale causato dalle percosse inflitte dai suoi carcerieri. La vicenda è stata rilanciata su tutti i canali mediatici, seguita da un divampare di manifestazioni che dall'Iran hanno toccato altri paesi. Significativo il gesto di tante donne che danno fuoco al velo in segno di ribellione e che si scoprono o tagliano i capelli, in pubblico e davanti alla polizia, fino a rischiare la vita (uccisa da sei proiettili anche la giovane Hadis Najafi, persona simbolo delle proteste di queste ore). Si muore per il fatto di mostrare qualcosa di così intimo e pericoloso da dover essere nascosto, i capelli, quei capelli che Amini e tutte le altre non potranno più né coprire né tanto meno liberare al vento. Si muore perché si vuol essere libere.

Manifestazione in ricordo di Masha Amini @il Messaggero

Lo sconcerto e il dissenso si propagano, rilanciando la consapevolezza dell'atrocità che accompagna il vissuto delle donne in più parti del mondo. Iran, da un lato, ma anche Italia, se pensiamo alla giovane uccisa per un bacio postato sui social, Saman, pakistana di seconda generazione residente nel nostro paese, fatta fuori e letteralmente a pezzi dal padre e familiari. La ragione? Voleva amare qualcun altro e non il cugino imposto dalla famiglia. Geografie diverse per religioni e culture differenti, eppure unite da un unico comun denominatore: l'oppressione ai danni delle donne, l'esercizio brutale del dominio sul corpo delle donne. 

Già, perchè quel che emerge è qualcosa di antico eppure pericolosamente attuale: il corpo delle donne sembra appartenere a tutti tranne che alle donne stesse. Non ho conoscenze in merito alla cultura islamica o altre aree del Medio Oriente ed Asia, eppure sento il bisogno di mettere in forma di parole alcune considerazioni. In prima battuta per solidarietà, per umanità, difronte a quanto non è altro che un crimine. Come può, una fede, giustificare di togliere la vita in nome di una 'colpa'? Vorrei tagliare i capelli anche io ma non ce la faccio. E poi, in seconda battuta, a partire dalle vicende che riguardano culture lontane e altre, è possibile rivolgere lo sguardo verso i nostri di luoghi, verso il nostro Occidente tranquillo e democratico, e chiederci come stiamo noi, riguardo alla gestione del corpo e di quanto la corporeità si porta dietro? 

Ecco, come stiamo. "Il corpo non è solo tuo: è un biglietto da visita, un fatto pubblico, qualcosa che non puoi nascondere". L'ho letto nel libro di Maura Gangitano Specchio delle mie brame. La prigione della bellezza (Einaudi 2022). Non si parla di Islam, non delle gabbie che la cultura islamica costruisce intorno al corpo e alla vita della donna attraverso l'impalcatura della 'legge di Dio' e della sharia, bensì della florida cultura occidentale e di quella gestione dell'aspetto esteriore che rende il canone della bellezza come una sorta di altra 'religione'. Che il corpo in generale e i capelli in particolare abbiano a che fare con la sessualità e l'eros è cosa acquisita. Non si tratta solo di materia inerme o di attributi da acconciare a seconda delle occasioni, si tratta di spazi dal valore fortissimo, dove si dipanano intrecci sociali e politici. Il corpo è il regno della soggettività: ciò che di più viscerale, di più vulnerabile ma al tempo stesso di più potente abbiamo. La cosa più concreta che possediamo diventa ‘simbolo’ per eccellenza. Scrive Umberto Galimberti: "[il corpo] è un operatore simbolico, che consente un’interminabile decostruzione dei codici che equivale ad una continua liberazione di senso” (Il corpo, Feltrinelli 2000). Proprio perché ricco di valenze il corpo è anche territorio da contendere - soprattutto quello femminile -, su cui esercitare il massimo controllo. Ecco, nelle pagine documentate di Gangitano questo involucro bellissimo è descritto come un vero campo di battaglia; né peraltro si tratta di una battaglia di ieri: sì, da sempre alle donne viene detto cosa fare, ma a partire dall'Ottocento e poi con il Novecento, tra arte fotografia pubblicità e capitalismo, si costruisce una vera e propria mitologia. La bellezza come diktat, come dittatura che blandisce in nome della libertà di espressione e dell'emancipazione, che di fatto soggioga a sguardi altrui. E all'insoddisfazione perenne. "Lo standard della bellezza costituisce un controllo, oltre che fisico, soprattutto emotivo e psicologico, e se controllare le donne può dare serenità a chi non vuole che le cose cambino, rappresenta in realtà un grande impoverimento. E' la perdita di un enorme potenziale di cambiamento, a favore del controllo dei corpi e della ragione capitalistica. Ed è tutta una questione di sguardo" (p. 37). 

Ecco, una questione di sguardi, da rivolgere in primo luogo alla storia oltre che naturalmente al presente. Nel testo di Daniela Brogi Lo spazio delle donne (Einaudi 2022), a dimostrazione della tensione che anima la riflessione italiana sull'argomento, si affronta il tema dello 'spazio' delle donne a partire dai luoghi narrati e simbolici della letteratura, lo spazio marginale che da sempre viene attribuito al femminile, o meglio lo spazio separato: "palazzi nascosti, case dimenticate, camere, giardini segreti, stanze con finestre, cucine, soffitte, collegi, stalle, celle di monasteri, salottini e ogni altra forma di luogo chiuso"; spazi che diventano il viatico per solcare altri spazi ancora, quelli della cultura odierna, tra letteratura, filosofia, cinema e politica: "La scommessa per uno spazio delle donne era e rimane questa, capire come ripensare e ricostruire l'esperienza e la storia delle donne, a partire dalla loro letteratura, rimettendo in prospettiva un passato così pieno di talenti azzerati e di opere occultate. Soltanto dopo la morte di Emily Dickinson, nel 1886, fu scoperto, nella sua camera, il corpus delle sue poesie: più di millesettecento testi scritti su foglietti ripiegati e cuciti con ago e filo. Non possiamo sapere quanti altri canzonieri siano rimasti nascosti, o quante tele d'autrice siano andate bruciate. La disuguaglianza non si risolve né si rielabora solo intervenendo sulla disparità dei numeri, ma con nuovi sguardi e parole" (p. 102).

La necessità di rileggere e rianimare il passato si fa pressante per riconfigurare il presente, per scegliere cosa fare in questo presente contraddittorio e difficile, dove si palesa un incontro tra esperienze speculari: là una fede che obbliga a nascondere il corpo, a coprire i richiami alla sessualità, fino ad uccidere se si osa trasgredire; qui una fede laica che il corpo lo scopre, lo libera, lo denuda e lo leviga (La salvezza del bello, di Byung-Chul Han, Nottetempo 2019, dove il levigato assurge a nuova categoria di controllo e di positività), rivestendolo però di valori sociali scottanti e facendo diventare la bellezza un 'lavoro'. Non si muore né per un seno né per una chioma scoperti in Occidente, eppure abbiamo di che temere se è vero che sul nostro corpo e del nostro corpo si decide sempre di più, nei media e nel visuale stando agli studi citati, e nella società tutta, in modo antidemocratico; vedi la revisione della sentenza sull'aborto negli Stati Uniti e la difficoltà che si registra in italia a causa dei medici obiettori (cosa succederà da oggi?). 

Cosa fare, si chiedono Gangitano e Brogi alla fine dei loro libri. Cosa fare, ci chiediamo tutte e tutti noi. Non metteremo nessuna donna iraniana al riparo dalla tirannia scrivendo, non salveremo nessuna pakistana dalla brutalità paterna, ma alimentare un discorso sano sulla cultura, non compiacente, è sempre più urgente; come indica con chiarezza Azar Nafisi, autrice di Leggere Lolita a Teheran (Adelphi 1997), vittima della rivoluzione islamica del 1979 e in esilio dal 1997. "In ogni altra parte del mondo se fai sesso con una bambina di 9 anni finisci in galera. Nella supposta 'nostra cultura' finisce in galera chi si oppone e e denuncia lo scempio di stupri coniugali con le bambine (...) [Il velo] è il simbolo dell'oppressione. Dice che i capelli e il corpo e il volto delle donne sono così sessualmente pericolosi per gli uomini che devi farli scomparire sotto il hijhab o il burka. Nessuno si può permettere di dirlo. In Iran il velo dovrebbe essere facoltativo" (La Stampa, 24.09.22, intervista di C. Soffici). La cultura non è una mano da passare sulla coscienza, è piuttosto una risorsa per alimentare il pensiero, per prendere posizione e sollecitate il coraggio. È dalle donne che vengono sempre di più i gesti coraggiosi, gli unici, che vanno al cuore del simbolo e lo sovvertono, facendo delle scelte. Certo accompagnate anche dagli uomini, come si vede nei video postati dall'Iran di questi giorni. E le scelte riguardano anche l'Occidente, come mostra la giornalista Christiane Manpour che rifiuta di indossare il velo in occasione dell'intervista - mancata - al presidente della repubblica islamica Raisi. O più prosaicamente, in territorio italiano, facendo la scelta di andare a votare (l'astensionismo femminile, sarà aumentato questo 25 settembre?).

Iran, 1979.

Dove cercare slanci di libertà e di consapevolezza, dove cercare le risorse per dire no a tutte le violenze, se non nel dibattito e nella cultura, nelle arti tutte, nella letteratura, nella poesia, nel teatro? E' dalle artiste che dalla curva vertiginosa del Novecento fino ad ora vengono le proposte più dirompenti, proprio nella direzione dell'uso del corpo. Sono le artiste che hanno fatto del corpo la materia prima del loro lavoro, esprimendolo e agendolo con performances ed azioni, non più soltanto 'rappresentandolo' su una superficie, ma mettendolo in dubbio, persino in crisi, facendone manifesto vivo di presa di coscienza e di creatività. Sono state le artiste che hanno messo il corpo al centro di azioni di dissenso civile, di ribellione alla violenza, di contestazione delle logiche del patriarcato e della cultura dominante. Tra le tantissime che potremmo citare (in primis  l'iraniana Shirin Neshat, di cui ho scritto qui) mi viene in mente la forza gentile nonchè perturbante delle opere di Mona Hatoum, libanese in esilio da sempre, che fa del corpo e dell'essere senza radici tema centrale del suo lavoro, che con gli spazi domestici spesso si confronta. "Agli inizi degli anni ottanta, ho utilizzato il mio corpo nelle performances perché lo consideravo il mio unico documento d'identità: è attraverso i sensi, infatti, che tutti abbiamo esperienza del mondo" (Il Manifesto 8.4.2008, di A. Di Genova). La sua kephiah (1993) intessuta di capelli, ovvero un copricapo - quindi un altro tipo di velo - rimanda alla solidarietà verso il popolo palestinese, che si intreccia ai capelli come a dire la necessaria intimità che accompagna ogni lotta, ogni presa di posizione, ma dice anche della commistione tra maschile e femminile; la sua collana apparentemente normale fatta invece di sfere di capelli (Hair necklace 1995), mi sembrano ricordare in modo poetico che anche i capelli tagliati, i capelli che vanno via per il desiderio di essere libere, i capelli che abbandonano il corpo, possono trasformarsi da scarto in una trama per disegnare altri significati, altri propositi: non darsi mai per vinte e non riununciare alla propria autonomia, dire alle altre e agli altri a gran voce che questa autonomia è giusta e non fa male. 

@Mona Hatoum, Hair necklace, 1995.

@Mona Hatoum, Kephiah, 1993-1999.





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