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Ali per sognare. Sul cadere (e rialzarsi) nell'arte

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Accade a tutti prima o poi di cadere e di fallire. Ci ritroviamo per terra storditi e incapaci di reagire, stretti nella morsa che rende impraticabile ogni tentativo di rialzarci . Poi però ci rimettiamo in piedi, ci mettiamo un bel po', magari strisciamo anche su quella terra prima di rivolgere lo sguardo verso l'alto. Sta di fatto che in un modo o nell'altro - talvolta accade - ci si risolleva e si riprende una qualche direzione.  A. Giacometti, Uomo che cade, 1950, bronzo. Ho pensato al cadere ed al rimettersi in piedi in questi giorni intensi di esami di stato, ascoltando le mie alunne e i miei alunni del corso serale sostenere il colloquio d'esame . Certo, non sono stati gli unici studenti ad avere affrontato la prova, ma per molti di loro - adulti del Liceo artistico Basile D'Aleo di Monreale, che si sono dati una seconda occasione di studio - si è trattato di un appuntamento importante, vissuto come un riscatto, come un'opportunità di rilancio personale

"Più inesprimibili di tutto sono le opere d'arte". Su parole e immagini

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Una frase di Rilke: "Del resto, per afferrare un'opera d'arte, non c'è niente di peggio delle parole della critica d'arte. (...) Quasi tutto quello che avviene è inesprimibile. (...) Più inesprimibili di tutto sono le opere d'arte, questi esseri segreti, la cui vita non ha fine e che costeggiano la nostra che passa" (da Lettere ad un giovane poeta, Adelphi 1980). A proposito dunque di opere d'arte e della possibilità di 'dire', a proposito dell'opportunità di trasmettere qualcosa sulla loro esistenza, il loro corpo e il loro carattere, grazie a quel poco (o molto) che abbiamo: le parole, il pensiero, la conoscenza. In particolare, mi ritrovo a riflettere su ciò, a margine di alcune letture accomunate da un filo rosso: la fotografia. Fino a che punto ci si può spingere nell'accostare o aggiungere parole a quel che secondo Rilke rifugge massimamente dalle parole? Fino a che punto ci si può spingere per avvicinare, raccontare, commentare,

Cosa ti aspetti da me? Sull'arte, le aspettative, l'identità

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"Prof, ma se le donne nell'antica Grecia non contano nulla e stanno in casa, come mai la divinità della guerra è proprio Atena, una donna? ". Interno giorno in una classe di primo liceo artistico. La domanda apre una vivace discussione e ci porta ad occuparci di Atene e della mitologia, del femminile e dei complessi rapporti tra i generi, nella classicità e con qualche salto nell'oggi. Studiare l'arte del V e del IV secolo a.C., tra un'amazzone di Fidia e una Venere di Prassitele, impone sguardi che vanno ben aldilà della bellezza formale della classico: a partire da una scultura si possono esplorare strade insospettate. Mimmo Jodice, Amazzone, 2007. Chiarito che il ruolo di Atena è quello di presiedere alla guerra intesa come strategia e intelligenza, con una certa distanza rispetto alla guerra come violenza che compete ad Ares; maneggiati in qualche modo gli intricati rapporti tra maschi e femmine nell'Olimpo e metabolizzato - forse - lo sconcerto provoc

Con i piedi per terra. Sull'arte, sui sogni e sul camminare

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Con i piedi ben piantati per terra. E' una condizione collettiva, quella in cui si impone l'esercizio della realtà che siamo chiamati a svolgere in particolare nel nostro tempo. Saldi, ma nello stesso tempo con il desiderio di normalità, come quella di girovagare facendo passi uno dietro l'altro nell'esplorazione dei luoghi.  Metto insieme questi pensieri studiando alcune opere che parlano - tra le altre cose - di estremità. Ma quando mai ci ritroviamo a parlare di piedi? E nell'ambito della storia dell'arte? Eppure fanno parte del nostro corpo, ci hanno aiutato nella conquista della posizione eretta e a ben guardare dentro alle tele o altre opere d'arte dicono molto dello spirito con cui un artista si mette al lavoro. D'altra parte, come dice la leggenda, anche Buddha ha misurato l'universo facendo sette passi in ciascuna delle direzioni dello spazio. Come spesso succede trovato un filtro attraverso cui osservare quel che abbiamo davanti, ecco che

Guardare con le mani (o con la coscienza). L'esperienza luminosa di John M. Hull

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Vi siete mai chiesti qual è il vostro modo di stare al mondo, con sincerità e coraggio? Vi siete mai chiesti, in profondità, cosa vuol dire stabilire un contatto con ciò che vi circonda , con le persone che amate e quelle che nemmeno conoscete? Cosa significa per voi il timbro di una voce, il suono della pioggia o la carezza del vento? Per la maggior parte di noi alcune di queste domande sono troppo grandi, altre decisamemente futili, eppure viene spontaneo porsi questi interrogativi - e molti altri - durante la lettura di un bellissimo libro, solare a dispetto del titolo: Il dono oscuro , di John M. Hull (Adelphi 2019, con una prefazione di Oliver Sacks, traduzione di F. Pacifico). Australiano, professore di Teologia e Scienze religiose a Birmingham, scrittore di successo e controcorrente, Hull perde progressivamente la vista nell'arco di circa cinque anni. Ha solo 45 anni e il mondo intorno a lui comincia a diventare sempre più buio e lontano.  The mounth of Krishna, di A.P. Cab