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DIDATTICA

Prima di rubare, pensa! Su strappi e vandalismi nell'arte (e nelle scuole)

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'Prof, ci hanno rubato le foto! Non è giusto!' Interno giorno in una quinta dell'istituto professionale in cui passo gran parte del mio tempo: un grido si leva per lamentare il furto delle stampe formato A3 con le quali colmiamo l'assenza di alcuni strumenti didattici (una cartina geografica sarebbe utile, ad esempio). Non abbiamo granchè ma ce lo facciamo bastare , ovvero la lavagna in ardesia e i nostri cervelli. I fogli in questione erano le copie di due tra i baci più celebri dell'immaginario visivo europeo, Hayez 1859 e Doisneau 1950. 'Chi è stato?' Non lo sapremo mai ma è usanza della popolazione scolastica dell'istituto fare incursione nelle aule delle altre classi per appropriarsi di quanto appeso alle pareti, sospettiamo con l'obiettivo di farne coriandoli (anche le porte attirano azioni varie, ben più gravi). L'ipotesi del furto motivato da desiderio di possesso o da ammirazione per le opere riprodotte ci è sembrata improbabile.  Nel c

Morire per una ciocca di capelli. Il corpo delle donne iraniane è anche il nostro

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Succede dunque di morire per una ciocca di capelli. Lo sapete tutti: il 13 settembre, a Teheran, la ventiduenne Masha Amini è stata arrestata dalla 'polizia morale' perchè non indossava correttamente il velo, l' hijab . Amini è morta qualche giorno dopo per il trauma cerebrale causato dalle percosse inflitte dai suoi carcerieri. La vicenda è stata rilanciata su tutti i canali mediatici, seguita da un divampare di manifestazioni che dall'Iran hanno toccato altri paesi. Significativo il gesto di tante donne che danno fuoco al velo in segno di ribellione e che si scoprono o tagliano i capelli, in pubblico e davanti alla polizia, fino a rischiare la vita (uccisa da sei proiettili anche la giovane Hadis Najafi, persona simbolo delle proteste di queste ore). Si muore per il fatto di mostrare qualcosa di così intimo e pericoloso da dover essere nascosto, i capelli, quei capelli che Amini e tutte le altre non potranno più né coprire né tanto meno liberare al vento. Si muore pe

Tutto un rimbalzare di neuroni. Scuola, persone e rivoluzioni nel racconto di Vanessa Ambrosecchio

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"All'inizio ha avuto il sapore della rivoluzione. Certo, le rivoluzioni vengono dal basso, questa assomigliava di più a un meteorite". Accade così, che gli inizi abbiano il tenore di un evento fragoroso e destabilizzante, qualcosa che ti cade addosso (nel verificarsi di ogni inizio, anche quello di rilancio di questo blog che rischia, altrimenti, di restare un'incompiuta). L'inizio in questo caso è molteplice, seppure trovi nella scuola il suo filo rosso: le campanelle d'avvio dell'anno scolastico, a settembre; l'inizio (o quasi, "il sapore della rivoluzione" si trova a p. 6) di un libro già letto l'anno scorso che torna però in aiuto proprio ora, Tutto un rimbalzare di neuroni , di Vanessa Ambrosecchio ( Einaudi 2021 ). E infine, un percorso professionale nuovo di zecca per  la sottoscritta, alle prese con nuove scuole per l'ennesima volta e dunque con nuovi contesti, nuovi volti e nuove dinamiche. In una fase di ripartenza, durante

Il mondo alla finestra (o sul display). Le emozioni e le parole per raccontarle

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Sabato 23 ottobre: mi trovo a Palermo, cammino per strada e costeggio la scuola professionale vicino casa. Soffia vento di scirocco e così una specie di estate ci confonde mentre il calendario ricorda che siamo in autunno. Le finestre delle aule della scuola sono aperte, un ragazzo affacciato tuona con vigore ‘Buongiorno, mondo!’.  Ha un tono sorridente, la voce sicura: mi fermo alzando la testa per cercarlo con gli occhi, curiosa. Non so bene a chi si rivolgesse, forse a nessuno, forse davvero al mondo tutto, all’orizzonte fuori dalla scuola in quel momento. Un fuori che da adolescenti non si vede l’ora di scoprire o che mette paura, un orizzonte opaco, insondabile e attraversato da ombre lunghe a dispetto della luce bianca. Cosa vedono, cosa sanno, cosa pensano del mondo ‘fuori’, i nostri ragazzi? Cosa sanno del mondo che si agita oltre le finestre delle aule in cui trascorriamo così tanto tempo insieme? Domande che sono con me ogni volta che entro in classe, anche quando mi scordo q

Ali per sognare. Sul cadere (e rialzarsi) nell'arte

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Accade a tutti prima o poi di cadere e di fallire. Ci ritroviamo per terra storditi e incapaci di reagire, stretti nella morsa che rende impraticabile ogni tentativo di rialzarci . Poi però ci rimettiamo in piedi, ci mettiamo un bel po', magari strisciamo anche su quella terra prima di rivolgere lo sguardo verso l'alto. Sta di fatto che in un modo o nell'altro - talvolta accade - ci si risolleva e si riprende una qualche direzione.  A. Giacometti, Uomo che cade, 1950, bronzo. Ho pensato al cadere ed al rimettersi in piedi in questi giorni intensi di esami di stato, ascoltando le mie alunne e i miei alunni del corso serale sostenere il colloquio d'esame . Certo, non sono stati gli unici studenti ad avere affrontato la prova, ma per molti di loro - adulti del Liceo artistico Basile D'Aleo di Monreale, che si sono dati una seconda occasione di studio - si è trattato di un appuntamento importante, vissuto come un riscatto, come un'opportunità di rilancio personale

"Più inesprimibili di tutto sono le opere d'arte". Su parole e immagini

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Una frase di Rilke: "Del resto, per afferrare un'opera d'arte, non c'è niente di peggio delle parole della critica d'arte. (...) Quasi tutto quello che avviene è inesprimibile. (...) Più inesprimibili di tutto sono le opere d'arte, questi esseri segreti, la cui vita non ha fine e che costeggiano la nostra che passa" (da Lettere ad un giovane poeta, Adelphi 1980). A proposito dunque di opere d'arte e della possibilità di 'dire', a proposito dell'opportunità di trasmettere qualcosa sulla loro esistenza, il loro corpo e il loro carattere, grazie a quel poco (o molto) che abbiamo: le parole, il pensiero, la conoscenza. In particolare, mi ritrovo a riflettere su ciò, a margine di alcune letture accomunate da un filo rosso: la fotografia. Fino a che punto ci si può spingere nell'accostare o aggiungere parole a quel che secondo Rilke rifugge massimamente dalle parole? Fino a che punto ci si può spingere per avvicinare, raccontare, commentare,